C’é un motivo per cui un estremista viene definito tale. Nessuno, tuttavia, nasce estremista. L’essere umano é violento, come tutti gli animali. L’essere umano, come il vostro cane e il vostro gatto, ha bisogno di attenzione. Se un bambino viene educato alla violenza e nello stesso tempo non riceve attenzione, non viene preso sul serio, potete star certi che l’attenzione la comanderà altrove, da altri, con la violenza. Daniele ha avuto questo destino.
I ragionamenti psicologici non sono un condono di un comportamento aberrante, parliamoci chiaro. Alcuni quotidiani sembrano quasi tentare di riabilitarlo, di vederlo con una particolare benevolenza. Un simpaticone, allegro, padre di famiglia. Soliti commenti come per tanti criminali: sembrava un tipo a posto, gentile, un compagnone, era quello che salutava sempre per primo, sorrideva a tutti, amava giocare con i bambini, apriva la porta alle signore”.
La sua fine tragica era un rischio che Daniele deve aver sfiorato non so quante volte, e devono averla sfiorata coloro che lo hanno incontrato dentro o fuori dagli stadi.
Il “combattente” del “Blood Honour” era un picchiatore fascista che si nascondeva sotto il travestimento dell’appassionato di calcio (e delle arti marziali). Ma dello spirito dello sport e del calcio non aveva capito nulla, e nemmeno delle regole delle Arti Marziali, nemmeno le antiche basi, risalenti al codice del Bushido giapponese. Usava una terminologia di estrema destra e si sfogava picchiando. Fin da piccolo era stato allevato alla “legge della curva”.
Ricorda un film inglese, basato su una storia vera, un famoso fatto di sangue che coinvolse un famoso hooligan che non fu schiacciato da un SUV, ma in un SUV trovò la sua fine, crivellato di colpi insieme ad altri due, dopo aver mosso dall’ “hooliganism” alla criminalità del traffico di droga (Rise of The Footsoldier – Regia di Julian Gilbey, 2007).
Daniele lavorava in Svizzera, nelle costruzioni. Aveva una famiglia, moglie e due bambini. Ma ogni domenica sentiva il dovere di difendere l’onore delle squadre, o meglio della tifoseria ultras di quelle squadre. L’onore del sangue del klan a cui apparteneva e di cui era divenuto il capo. Un klan, una tribù ostile verso altre tribù che sventolavano vessilli differenti, ma che possiedono un uguale, primitivo codice di dis-onore. Coerente e incapace di flessibilità, indifferente alla legge sociale che ripetutamente gli aveva proibito di avvicinarsi agli stadi (DASPO e RI-DASPO), legato più all’orda furiosa che alla sua famiglia – e questo é certo altrimenti avrebbe smesso di rischiare la testa spaccata ogni domenica – ha trovato tristemente la pace che gli era stata negata, forse dal giorno uno sulla terra. Non era una brava persona, era un bandito da stadio, ma non era lui il capo, come dicono. I veri capi non muoiono mai, sono più furbi e spietati. Sono i dirigenti delle società calcistiche, che da sempre fingono l’indignazione, ma poi non prendono mai provvedimenti seri contro i criminali ultras, che spesso anzi ricevono biglietti gratis o scontati.
Naturalmente parleranno, come al solito, di alcune mele marce, di pochi violenti, senza porre l’attenzione, come sempre, sul fatto che é il cesto che contiene le mele, la causa del marcio.
E le mele cadute presto, e raccolte dai club calcistici, saranno le prime a marcire.
Così, il normale tifoso cercherà una birreria con un maxi schermo, e con amici andrà a fare il tifo tra una birra e un piatto di patatine, ma raramente andrà allo stadio, o in trasferta. E non solo per i costi, ma perché al di là del calcio, hanno una vita con tanti impegni, interessi e affetti, a cui tengono. Sono il mondo rotondo, non la terra a disco.