1) A Sangue Freddo
La mattina del 16 novembre del 1959, mentre a Torino io ciucciavo latte da un biberon, lo scrittore americano Truman Capote stava leggendo il giornale in un un caffè di New York. Tra le varie notizie del giorno, una in particolare lo incuriosì. Qualcuno era entrato in una remota fattoria nel Kansas e aveva trucidato a fucilate un’intera famiglia, padre madre e due figli.
Passarono una decina di giorni e la polizia acciuffò due ragazzi sbandati (“drifters”) che alla fine confessarono il massacro. Furono processati e condannati alla pena capitale. Questo evento in qualche modo risucchiò l’attenzione di Capote, in maniera così completa che decise di prendere un treno e recarsi in Kansas, accompagnato dalla sua collega scrittrice e amica d’infanzia, Nelle Harper Lee (premio Pulitzer per “Il Buio Oltre La Siepe”). L’idea di Capote era di investigare gli eventi, nonché la storia dei due assassini. Questa attività lo occupò per sei anni. La storia che Capote scrisse venne prima pubblicata a puntate sulla rivista New Yorker, e poi rilegata in un unico tomo dal titolo “A Sangue Freddo”.
Lo scrittore rimase colpito dalla casualità degli eventi umani, eventi magari talora – in apparenza – marginali, ma fondamentali nel provocare cambiamenti sostanziali. La sua stessa vita sarebbe potuta divenire come quella di uno dei due assassini – riformatorio, prigione, serie di crimini – se solo non gli fosse capitato “di uscire dall’infanzia attraverso la porta principale, invece che da quella del retro”.
La vita produce innumerevoli bivi, trivi e quadrivi nella vita di ciascuno di noi. La maggior parte di questi, specie all’inizio della vita, non vengono imboccati per scelta cognitiva ragionata. Anche nel momento in cui la vita ci porta a fare scelte cruciali, tra bene e male, posto che tale scelta appaia così semplice e lampante, e non possieda in sé la condizione di bene e male, qualsiasi possa essere la strada imboccata, ci sarà semplice decidere di non fare del male, non fare ad altri quello che non vogliamo sia fatto a noi?
Senza volermi paragonare al genio e alle capacità intuitive umane e sociali di Capote, mi sono tuttavia trovato bloccato ormai da settimane su alcune fotografie, e su di una in particolare.
Le fotografie appartengono ad un album di ricordi personale, album riaffiorato dopo molti decenni. Riapparve nel 2006, sei anni dopo la morte del suo proprietario.
Ho scelto questa foto perché sembra una foto di classe. Un collegio militare, visto che ragazzi e ragazze sono in divisa. Appaiono felici, suonano la fisarmonica, uno strumento da festa di piazza, da chanconnier. Non é una foto ufficiale, altrimenti sarebbero tutti in file uniformi, probabilmente le ragazze davanti e i ragazzi dietro, come in una foto di classe. E’ una foto ricordo, e nonostante che allora le macchine fotografiche fossero poche e gli smartphone non esistessero, lo spirito che pervade i ragazzi e le ragazze immortalati non é diverso da quello di un selfie di gruppo dei nostri giorni.
2) Il sorriso della giovinezza
Possiamo tranquillamente metterci in relazione con loro e la loro allegria. Il ragazzo al centro della foto allarga le braccia come ali che avvolgono le spalle delle ragazze che posano ridendo alla sua destra e alla sua sinistra. Le ragazze sono in sovrannumero, una situazione che di solito produce un allegro imbarazzo agli uomini. Un giovanottone alto e biondo sta sulla sinistra della foto un poco distaccato. Forse é il timido del gruppo, quello che nelle feste rimane più seduto, nella seggiola in fondo alla sala, contro il muro. Oppure rimane attaccato al bar, a fare il superiore con un bicchiere di birra e una sigaretta, la parte di quello che ha avuto talmente tante donne che può permettersi di osservare con sguardo bonario i movimenti di corteggiamento degli altri.
Il ragazzo con la fisarmonica, l’unico con il cappello, probabilmente é l’anima delle feste. Senza di lui e il suo strumento non si iniziano le danze. Specialmente all’aperto, dove non ci sono né dischi né grammofoni. In prima fila, alla sua destra, una ragazza sembra lanciare un grido gioioso, come se fosse stata colta in flagrante a combinare una marachella. Anche la ragazza bionda vicino sembra gridare. Forse il fotografo ha scattato senza avvertire? Forse le ragazze non hanno avuto il tempo di mettersi in posa, assumendo atteggiamenti più affascinanti e civettuoli? É possibile che sia proprio così, visto che ci sono altre persone nel retro della foto che sembrano affrettarsi per voler apparire, per non rimanere eclissate dalla prima fila.
Una foto giovanile di gruppo come tante. Un momento di allegria nelle loro vite, come tutti noi abbiamo provato, anche se magari la memoria di quell’allegria si é sfrangiata e assottigliata con gli anni.
Salvo il fatto che non é una foto come tante altre, e questi ragazzi non sono allievi di un collegio militare misto.
I ragazzi erano ufficiali e sottoufficiali delle SS e le ragazze appartenevano alle SS-Gefolge, reparti femminili, ausiliarie delle SS, distaccate come SS-Ausfeherinnen, guardie di campo. Tutti facevano parte del personale del campo di Auschwitz.
Le foto presenti nell’album di ricordi vennero tutte scattate tra l’estate e il natale del 1944.
In quel periodo fu messa in atto l’ultima fase dello sterminio di massa degli ebrei d’Europa, e degli ultimi zingari deportati.
Proviamo a seguire gli eventi:
15 maggio – 9 luglio: quattrocentoquarantamila ebrei ungheresi, arrestati dalle guardie ungheresi coordinate dalle SS tedesche, vengono deportati in Polonia. La maggior parte finisce ad Auschwitz, e quasi tutti vengono immediatamente selezionati per le camere a gas. Arrivano 3 treni al giorno, quaranta/cinquanta vagoni con cento persone o più per vagoni.
15-18 maggio: in giro per l’Europa si mormorava che nei campi di concentramento tedeschi ci fossero stati degli eccessi (!). La Croce Rossa danese decide di fare un’ispezione sulle condizioni degli internati nel campo di Terezin, in Boemia. Le autorità tedesche vengono avvertite. Terezin é ampiamente sovrappopolato, la gente vive in condizioni di miseria, inedia e muore di malattie. Per non far figuracce, i nazisti alleggeriscono la popolazione spedendo ad Auschwitz-Birkenau 7003 ebrei tedeschi, austriaci e cecoslovacchi. Non verranno uccisi subito.
23 giugno: ispezione della Croce Rossa a Terezin. Tutto bene. Avanti così.
6 luglio: l’ammiraglio Horty, reggente del governo ungherese, blocca le deportazioni degli ebrei ungheresi verso la gassazione che li aspetta ad Auschwitz.
Luglio: deportazioni da Italia, Grecia, da altri campi nazisti (Majdanek). Quelli che arrivano vivi, vengono diretti alle camere a gas.
2 agosto: 1408 zingari vengono trasferiti da Auschwitz al campo di Buchenwald, in Germania. I restanti, 2897 uomini, donne e bambini vengono tutti gassati e bruciati nei crematori di Auschwitz Birkenau.
9-28 agosto: liquidazione del ghetto di Lodz, in Polonia. Sessantamila ebrei e un numero sconosciuto di zingari prendono il treno per Auschwitz.
29 agosto-28 ottobre: rivolta contro il governo filonazista della Slovacchia. Durante i disordini 12600 ebrei vengono deportati ad Auschwitz
7 ottobre: Rivolta dei prigionieri ebrei con il compito di far funzionare le camere a gas e i forni crematori (Sonderkommando). Gli insorti fanno esplodere il Crematorio 4. Le SS riprendono il controllo dell’area dei crematori. Circa 450 prigionieri ebrei vengono fucilati a seguito della rivolta.
Ottobre: con vari treni, gl’internati del campo di Terezin in Boemia, vengono trasportati ad Auschwitz e sterminati. Sono diciottomila. Quasi tutti finiranno nelle camere a gas.
25 novembre: incomincia il processo di demolizione del campo di Auschwitz Birkenau, a partire dai crematori e dalle camere a gas.
Mese di Novembre: l’uso delle camere a gas e dei crematori (tranne il Crematorio 5) viene interrotto, ma non le epurazioni. Continuano sotto forma di fucilazioni di massa, il sistema di sterminio iniziale usato nei paesi dell’est e in Unione Sovietica.
I prigionieri vengono usati, dalla fine del mese, per lo smantellamento del campo. I treni ormai si dirigono verso altri campi, all’interno della Germania.
Mese di Dicembre: continuano lavori di smantellamento con i prigionieri rimasti vivi, allo stremo delle forze. Ci sono anche bombardamenti alleati al campo.
Quei ragazzi felici di sicuro si trovarono a lavorare ad Auschwitz, probabilmente nei campi 1 (quello con la scritta “Il Lavoro Rende Liberi”) e il 2 (Birkenau, sterminio ed esperimenti medici). Venivano spediti a gruppi in un piacevole resort vicino al comprensorio dei campi e sottocampi del gruppo chiamato in generale “Auschwitz”. Si chiamava Solahütte, e le foto ricordo presenti nell’album furono scattate in quei momenti di rilassamento dal tran tran del lavoro quotidiano.
L’albergo-ostello principale venne distrutto nel 2011, ma altri cottage sono ancora presenti sulle rive del fiume, compresa quella del comandante e costruttore del campo di Birkenau, Rudolf Hoess. L’intero complesso venne costruito da prigionieri dei lager, e da loro mantenuto pulito. Verso la fine degli anni 60 il Partito Comunista Polacco lo ampliò e ristrutturò e divenne un “centro benessere” per alti membri del partito. Con la fine del comunismo il luogo fu abbandonato, trasformandosi in una sorta di piccola città fantasma.
3) Il Centro Vacanze
E così, fisso quei visi allegri “tipici” di giovani uomini e giovani donne che sembrano trovarsi in un clima di vacanza. Una vacanza premio di un’azienda che a 18 chilometri di distanza non smetteva mai di ammazzare, e ammazzare, e ammazzare.
Se mai vi é stata prova che quella gente non era solo un gruppo di robotizzate macchine da sterminio, questa fotografia la si può considerare come la prova definitiva.
Mentre i ragazzi si rilassavano nelle licenze, in quella fine primavera, estate, e autunno del 1944, passarono per Auschwitz lo scrittore Primo Levi, il Nobel per la Pace Elie Wiesel e la sua famiglia, lo psicologo e filosofo Viktor Frankl, Simone Weil e la sua famiglia, il filosofo e scrittore Jean Amery, le grandi diariste Anna Frank, Etty Hillesum, Liana Millu (“Il Fumo di Birkenau”) e Elisa Springer (“Il Silenzio dei Vivi”), Wilhelm Brasse (l’infelice prigioniero fotografo “ufficiale” di Auschwitz), Shlomo Venezia (“Sonderkommando Auschwitz”), la scrittrice Edith Bruch (la “Signora Auschwitz”), la senatrice Liliana Segre, per nominare qualcuno di quelli conosciuti ancora oggi. Salvo Anna Frank e Etty Hillesum, gli altri sopravvissero. Tuttavia, in quei sei mesi, morirono centinaia e centinaia di migliaia di persone sotto gli occhi di quei ragazzi e quelle ragazze festanti.
E quante foto simili saranno state ritrovate nelle tasche e nelle valigie di giovani deportati? Foto di classe, di compagnie giovanili. Il loro modo di vivere non era differente, tutti i giovani occidentali delle nazioni d’Europa avevano più o meno lo stesso modo di divertirsi. Eppure gli uni diventarono carnefici, e gli altri vittime. La guerra dei nazisti era una guerra di espansione, verso ovest, espansione annientamento e sterminio, verso est. Ma i nemici più temibili, secondo Hitler e i suoi collaboratori, non erano gli eserciti in divisa, erano quasi tutti civili. Non erano solo maschi abili alla guerra, erano vecchi, donne, bambini infanti, ragazzi e ragazze. Si dovevano combattere gli eserciti in divisa per guadagnare nuovi territori e scovare il vero insidioso nemico. E questo nemico, si comprese ben presto, non poteva essere ricollocato in territori remoti, lontani. Non si poteva far altrimenti. Occorreva eliminarlo. Era l’eterno nemico di tutte le nazioni cristiane, il tarlo che aveva eroso la Germania nei secoli. Ma l’ideologia del nazismo si fondava su concetti biologici-genetici (seppur totalmente distorti quando non inventati di sana pianta) ben definiti nelle menti della dirigenza politica e militare. L’eterno nemico era il popolo ebraico, non più definito come seguaci di una religione o di una cultura e una tradizione, ma una razza. Un religioso si può convertire, una persona cresciuta seguendo una certa cultura e tradizione può, per amore o per forza, abbracciare una nuova cultura e una nuova tradizione.

Ma chi appartiene a una “razza”, così come gl’ideologi (e gli scienziati) l’avevano stabilita nelle loro tesi, presenta in ogni cellula del suo corpo un ben definito marchio genetico, ovviamente indelebile e inalterabile, che non potrà che ripresentare quelle caratteristiche (fenotipiche) ben chiare di fisionomia, ma soprattutto di comportamento. Se questo comportamento era geneticamente predefinito in forma ostile al popolo tedesco (in particolare), non si poteva fare altro che eradicare questa specie aliena. Come spiegò uno dei medici del campo, Fritz Klein, ad una dottoressa deportata (e sopravvissuta, Ella Lingens-Reiner), che gli domandava come potesse conciliare camere a gas e crematori al suo giuramento ippocratico: “Ovviamente sono un medico e desidero conservare la vita, e per rispetto alla vita umana asporterei un’appendice incancrenita da un corpo malato. L’ebreo è l’appendice incancrenita nel corpo dell’umanità”.
I giovani soldati della foto dovevano essere stati indottrinati in merito al vero nemico da combattere già da un bel numero di anni. I più giovani probabilmente avranno assorbito solo quel tipo di educazione.
Ma come spiegazione di quello a cui presero parte, non é abbastanza. L’idea dello sterminio totale – il loro lavoro quando non se ne stavano a rigenerarsi nel villaggio vacanze di Solahutte – si concretizzò dal 1941, non dal 1933.
Ci fu qualcuno che si rifiutò, che si fece mandare ad altro lavoro? Sappiamo che non é vero che le SS dei campi rischiassero severe punizioni in caso di richiesta di trasferimento. Alcuni parlano di richieste – negate, come vedremo – di essere mandati a combattere contro i soldati russi, che, dopo essere stati sterminati senza pietà, a loro volta non facevano più prigionieri. Non é facile accertare la verità di tali asserzioni, ma é poco probabile.

Il curatore dell’album di fotografie era poco più anziano di loro, se lo era. Si chiamava Karl Frederich Hoecker, era aiutante di campo dell’ultimo comandante di Auschwitz. Le altre foto ritraggono anche lui, in compagnia dei comandanti Baer, Hoess, e del dottor Josef Mengele. Tutti sorridenti e apparentemente spensierati.
A sfogliare l’intero album, e non avessimo idea delle loro storie personali, potremmo supporre che tutti costoro si fossero venuti a trovare in un campo di riservisti nelle retrovie, dove nulla probabilmente accadeva salvo qualche marcia, magari il mantenimento di qualche magazzino militare. Un’allegra brigata, con qualche ufficiale con apparenza un poco più pomposa, più marziale, giusto per mantenere quel minimo di decoro militare.

Il medico e storico Robert Jay Lifton individua nei dottori di Auschwitz un secondo “sé” che prende il sopravvento nel lavoro nel campo, un altro “io” definito e staccato, un “io” che tali soggetti facevano fatica a riconoscere ma dava loro, dopo qualche giorno o qualche settimana, la capacità di resistere ed eseguire il loro lavoro. In più, per i medici, vi era la scusa razionalizzante del fare il lavoro di medico-scienziato, un lavoro di ricerca che avrebbe beneficiato la nazione tedesca, il popolo tedesco, e non solo.
Gli ufficiali sposati, ad esempio, avevano quasi tutti una vita famigliare impeccabile e normale, salvo alcuni casi, come per l’ufficiale Wolfgang Guessgen che pare picchiasse la moglie per via delle sue ripetute infedeltà. Si può quindi immaginare che la truppa SS, i sottoufficiali, le sorveglianti donne ( Aufseherinnen ) o gli ufficiali giovani e celibi, si fossero costruiti una simile armatura, almeno per coloro che possedevano, prima di Auschwitz, un qualche livello di empatia. Naturalmente vi erano quelli che evidentemente non ne possedevano, e addirittura erano mossi da un desiderio di carriera e potere a scapito delle centinaia di migliaia (alla fine ben oltre il milione) di vittime.
Ma torniamo all’immagine di questi giovani. Felici e contenti, o si recavano al centro ricreativo di Solahutte oppure andavano ad incontrare ragazze polacche nella vicina Kattowitz (Katowice). Ridevano, bevevano, suonavano e facevano l’amore. Poi tornavano al lavoro, la mattina successiva o dopo qualche giorno. Talora, in quel periodo, alcuni di loro saranno stati richiamati a metà licenza per via del numero di convogli provenienti dall’Ungheria, organizzati dallo staff diretto dal colonnello Adolf Eichmann. Eichmann aveva addirittura il potere di rallentare i treni di provvigioni militari e di sussistenza per le armate sempre più stremate dall’avanzata russa, poiché i treni con i deportati ebrei diretti ai centri di sterminio avevano la precedenza su tutto.

Il documentarista Lawrence Rees ha intervistato, qualche anno orsono, il signor Oskar Groening, deceduto recentemente. Il signor Groening era ad Auschwitz con il grado di Rottenführer (caporale). Non poteva essere nella foto di gruppo, poiché fu nuovamente trasferito nel gennaio del 44, ma lo si può immaginare, ventunenne, tra questi giovani. Avendo fatto studi di ragioneria, finì col fare il ragioniere anche ad Auschwitz. Spesso era presente all’arrivo dei treni, controllava quel poco di bagaglio lasciato sui vagoni dai deportati, e controllava il materiale che veniva diviso per tipo di oggettistica in quell’area di Birkenau che veniva sopprannominato “Canada”. Ma soprattutto contava le varie valute europee sequestrate ai deportati, per poi farne pacchetti da spedire in Germania agli uffici deputati al riciclaggio delle valute, estere o tedesche.
Una volta gli capitò di avvicinarsi a uno dei crematori di Birkenau (che includeva la camera a gas nel piano inferiore). Disse di esserne rimasto shoccato. Come poco dopo il suo arrivo, dopo aver assistito all’uccisione di un bambino (ucciso per farlo star zitto perché urlava terrorizzato, dopo essere stato caricato su un camion, la sua testa sbattacchiata contro il metallo dell’autocarro fino alla cessazione di ogni suono) ancora una volta chiese al suo diretto superiore di mandarlo altrove, anche al fronte russo. Groening mai fece obiezioni sul fatto che gli ebrei andassero uccisi, erano nemici del Reich, interni ed esterni. Andavano eliminati esattamente come altri nemici, ma non i bambini. Il comandante gli spiegò pazientemente, come si fa con uno studente o un impiegato un po’ imbranato, che quei bambini sarebbero divenuti adulti e che probabilmente si sarebbero organizzati per vendicare le loro famiglie. Alla seconda richiesta, in cui Groening si lamentò che non sopportava quel modo di uccidere i nemici (aveva visto un gruppo di donne, bambini e anziani scendere gli scalini verso la camera a gas, aveva sbirciato e visto chiudere le porte, aveva sentito un mormorio dietro a quelle porte che pian piano si tramutava in urla disperate, grida animali, seguite dal silenzio assoluto), e un conto e sparare contro dei russi che ti vengono addosso per ucciderti, un altro conto é ammazzare nemici inermi in questo modo”, l’ufficiale, sempre con la pazienza del capufficio che deve spiegare con parole elementari il senso del lavoro che il dipendente deve eseguire, gli sottolineò che quello era il modo in cui lui era stato chiamato a servire la causa della Germania, e che doveva farsi coraggio.
Così coraggio si fece, fino a quando, nell’inverno del 44, fu deciso di spedirlo altrove ad altri incarichi.
4) I Ricordi di Gioventù
Nell’agosto del 2014, alcuni editorialisti della rivista Der Spiegel (Felix Bohr, Cordula Meyer e Klaus Wiegrefe), intervistarono un’ altra guardia del campo di Auschwitz. Questi non era tedesco, ma serbo.

Venne arruolato dopo l’invasione tedesca della Yugoslavia, a diciannove anni. Non é chiaro come venne reclutato e accettato in un corpo elitario come quello delle SS, e per quale motivo decise di accettare. Ricevette un primo addestramento, poi fu spedito in un campo militare per un secondo addestramento vicino ad Auschwitz. Con l’avanzata russa e le ingenti perdite tedesche ad est, le SS tedesche nei campi venivano spedite al fronte e rimpiazzate da SS di diverse altre etnie, specie nella truppa. Il nome di costui non appare nell’intervista – accettò di farsi intervistare solo a patto di rimanere anonimo, dal momento che, trovandosi sotto processo, non avrebbe dovuto rilasciare alcuna intervista alla stampa. Jakob W. (con questo pseudonimo era chiamato nell’articolo) era di guardia sulle torrette, talora su quelle di controllo all’arrivo dei treni, talora su quelle del perimetro esterno del campo, di controllo sulle aree dove i prigionieri lavoravano fino allo sfinimento. Non poteva essere nemmeno lui tra quelli fotografati nell’album di Hoecker, poiché Solahütte era per gente di grado più alto (anche lui in libera uscita si recava alla stazione di Katowice per incontrarsi con ragazze locali).
(1) Nota: Josef Kramer, l’ufficiale semi-nascosto nella foto in questa pagina, si mostrò non all’altezza del compito di quel periodo (la deportazione e lo sterminio degli ebrei d’Ungheria. Fu quindi richiamato Hoess, come supervisore sia di Hoess che di Baer. In suo “onore”, l’immane massacro fu denominato “Aktion Hoess (il cui nome viene talvolta scritto come Höss oppure Höß). Dopo l’evacuazione del campo, Kramer finì a comandare il konzentration lager di Bergen-Belsen. Per le sue “qualità” venne soprannominato “la bestia di Bergen-Belsen”. Fu impiccato subito dopo la fine della guerra.
Aveva turni piuttosto duri di docidi ore in torretta. Quando era di guardia ai binari e alla Judenrampe (l’area su cui si riunivano i deportati scesi dai carri bestiame), divideva il turno con un’altra guardia e aveva diritto a delle pennichelle nel macabro edificio bucato dal passaggio dei binari, diventato simbolo dell’orrore, come il cancello di Auschwitz I sormontato dalla scritta “Arbeit Macht Frei”, il lavoro rende liberi.

Non negò il fatto che le camere a gas e i crematori lavorassero di continuo, in quel periodo, e che i crematori non erano abbastanza, tanto che furono scavate (dai deportati) trincee in cui scaraventare (sempre dai deportati) i morti in esubero asfissiati dal gas, e poi là bruciati in roghi giganteschi che illuminavano le notti di quella primavera, estate e autunno 1944, per chilometri, mentre l’odore di carne bruciata ammorbava le campagne intorno, per chilometri.

Ma anche lui, come Groening, come Reinhold Hanning – un’altra guardia morta di recente – come lo stesso Rudolf Hoess, comandante e costruttore della gigantesca officina di morte di Auschwitz II-Birkenau, tutti hanno negato di aver mai percosso o direttamente ucciso nessun deportato. Anche altri, come loro, giurarono di non aver commesso atti di crudeltà personali, e men che meno assassinii. Jakob W. asserisce di non aver mai visto una guardia SS picchiare o sparare a un deportato. In altre parole, gli atti spregevoli, sadici, malefici erano opera dei kapò, ovvero detenuti criminali tedeschi (all’inizio) e poi detenuti ebrei.
5) I Ricordi di Gioventù, dall’altra parte.
Davanti a me, impilati sulla scrivania, ho le testimonianze di alcuni sopravvissuti, e direi che nessuno pare trovarsi d’accordo con le testimonianze delle ex-SS.

Elisa Springer: “Continuando ad imprecare contro ‘noi sporchi ebrei’, ci incolonnarono a colpi di frusta come le bestie al circo”. “Costrette a spogliarci completamente nude davanti ad alcune SS […] fummo completamente rasate in tutte le parti del corpo. […]. In un ultimo tentativo di difendermi da tanta violenza fisica e morale, serrai le gambe, cercando di coprirmi il seno con le braccia. Un nazista mi colpì con la canna del fucile e mi gridò: ‘Spalanca le gambe e fatti rasare’ “. “La durata dell’appello variava a seconda delle condizioni climatiche e così, se faceva freddo e pioveva, i tempi si allungavano, diversamente diminuivano. L’impossibilità di muoversi era assoluta e se qualcuna, cedendo alla stanchezza e agli stenti, crollava, le SS la sottoponevano alle più svariate punizioni, coinvolgendo anche chi, eventualmente, le avesse prestato aiuto.

La tecnica delle punizioni variava, a seconda dei casi e dei momenti: si passava dalle bruciature con un ferro rovente, allo strappo delle unghie, ai calci con in pesanti stivali delle SS, alle bastonate inferte con rara crudeltà. […]. Il trattamento puntitivo veniva riservato anche a chi non comprendeva, subito, gli ordini impartiti in tedesco”.

Goti Bauer: “[…] eravamo separati soltanto dai reticolati e dalle garitte dove, dall’alto, le SS con le mitragliatrici puntate sparavano addosso a chi dimostrava una qualche mancanza di obbedienza ai comandi”.


Shlomo Venezia: “A un certo punto uno degli uomini che trasportavano cadaveri si immoblizzò. Aveva qualche anno di più di me, appena venticinque anni. Tutti quelli che gli passavano accanto tra il bunker e le fosse, lo spronavano a muoversi prima che Moll [SS-Hauptscharführer Otto Moll, da maggio a settembre 1944 responsabile dei crematori di Birkenau] se ne accorgesse. Lui non rispondeva a nessuno e restava così, immobile, fissando l’infinito.

Quando Moll lo vide gli si avvicinò urlando: ‘Du verfluchter jude!’ ‘Tu maledetto ebreo…Perché non stai lavorando, sporco ebreo? Muoviti!’. Sebbene Moll si fosse messo a frustarlo con tutta la forza che aveva, l’uomo rimase immobile, come se niente potesse toccarlo: non cercò nemmeno di proteggersi per evitare i colpi. Secondo me aveva completamente perso la ragione, non era più in questo mondo. Sembrava non provare più né dolore né paura. Mentre continuavamo ad andare avanti indietro, il tedesco rabbioso per l’offesa e per l’assenza di reazioni ai colpi, prese una pistola dalla tasca e gli sparò centrandolo da una distanza di qualche metro.”
Jean Améry (Hans Mayer): “La SS fiamminga Wajs che, incitata dai suoi padroni tedeschi,

mi colpiva in testa con il manico della pala quando non spalavo abbastanza in fretta, viveva l’attrezzo come un prolungamento della sua mano e i colpi come espressioni terminali della sua dinamica psicofisica”.
Nota: La Prima Percossa. Nel suo libro di riflessioni “Intellettuale ad Auschwitz” Jean Améry scrive: “Con la prima percossa il detenuto si rende conto di essere abbandonato a se stesso. Dopo il primo colpo, la tortura e la morte in cella […], sono presentite come possibilità reali, anzi, come certezze. Sono autorizzati a darmi un pugno in faccia, avverte la vittima con confusa sorpresa, e con certezza altrettanto indistinta ne deduce: faranno di me ciò che vogliono”.
A questo pensiero fanno eco le parole di Edith Bruch, sopravvissuta ad Auschwitz, magiara di origine e italiana di adozione, scrittrice, per anni compagna del poeta Nelo Risi.

Così inizia un’intervista del 2015 trasmessa su Rai1 Mattina: “Sono arrivati a bussare alla nostra porta i gendarmi ungheresi, gridando ‘Uscite in cinque minuti con un ricambio di binacheria, lasciate tutto, sporchi ebrei’. Urla a non finire, e questo uomo che avrà avuto – io ero piccola – venticinque o ventisei anni, ha dato uno schiaffo a mio padre, e lì ho capito che é tutto finito…finito.” Mio padre, classe 1920, durante il Fascismo era stato reclutato, come studente di liceo, nell’organizzazione militarizzata studentesca degli Avanguardisti. Marciava con il suo gruppo in mezzo ad una strada di Torino. Un signore anziano si era fermato ad osservare, braccia conserte e gambe divaricate, sul ciglio del marciapiede. Il capo manipolo ordinò l’alt al gruppo, se ne distaccò, raggiunse l’uomo che osservava la scena, lo prese per il bavero e gli mollò due pesanti ceffoni, gridandogli che in tal modo la prossima volta si sarebbe ricordato di salutare romanamente, al passaggio di un manipolo di giovani fascisti. Mio padre si vergognò di essere lì, di quella esplosione di violenza senza senso. Quella “prima percossa” ricevuta da una persona che lui vedeva come evidentemente vittima di un sopruso, fu il primo colpo al castello di certezze che il regime aveva cercato di inoculare nella sua testa di studente liceale italiano. Da quel preciso momento incominciò il suo distacco, progressivo e senza ritorno, dal regime mussoliniano.
Rahamin Cohen: “Era febbraio, in baracca, mi alzo per andare a urinare, c’era la neve. Andando in bagno non riuscivo a trattenermi, disgraziatamente l’urina mi finì per terra. L’urina nella neve ti lascia il segno giallo…. Non l’avessi mai fatto: un bastardo tedesco m’ha visto: ‘Kom, smuz italien, kom! [Komm, schmutziger Italiener, komm! Vieni, sporco italiano!]’. Mi portarono all’ufficio, dice: ‘Conta quaranta!’ Quando m’ha dato dieci colpi già non sentivo più nient. Mi son serviti più di tre mesi perché le natiche ritornassero al colore normale. Erano diventate nere come il carbone”.
Giuseppe Di Porto: “Una SS ha ucciso con il calcio del fucile uno che era di fianco a me

perché non ha tolto il cappello al suo passaggio.
Amalia Navarro: “A una ragazza greca un tedesco le ha detto:
‘Mettiti qua invece che là!’. Lei non ha capito; ha tirato fuori la rivoltella e l’ha freddata. Il tedesco si comportava secondo l’estro che aveva”. “Che qualche nazista si sia comportato in modo umano, a me non risulta”.
Per quanto riguarda le guardie femminili affiliate al corpo delle SS, i racconti sono altrettanto negativi:

Liliana Segre: “Le Aufseherin, le sorveglianti erano donne SS [nota: affiliate, poiché le donne non potevano ufficialmente far parte del corpo delle SS]. Ce n’erano di giovani, belle, curatissime nella persona, e di non giovani e non belle; ce n’erano alcune decisamente odiose anche di aspetto, dalle quali ti aspettavi il
gesto cattivo, il calcio degli stivali neri lucidissimi che avevano un rinforzo di ferro sotto la punta. Ma non ti aspettavi la stessa durezza, la stessa crudeltà da quelle belle, perché ti sembrava che la bellezza già dovesse appagarle. E invece erano implacabili. Le ho viste compiere atti di soverchieria, di prepotenza inaudita anche nei confronti di prigionieri uomini, che non potevano certo difendersi. Le ho viste frustare senza pietà. E avevano mille occhi. […] Ho preso tanti schiaffi e pugni, senza neanche sapere perchè.

Passavi e ti tiravano un ceffone da voltarti la faccia. Con quella debolezza, poi…e per niente. Erano cattiverie pure, gratuite. D’un tratto, queste Aufseherin così tremende con le prigioniere, davanti ai maschi SS si trasformavano in femmine sorridenti che sbattevano le ciglia. […] Comunque le donne erano forse peggio degli uomini, per quello che ho visto.”
Giuliana Fiorentino Tedeschi: “Incontrare un tedesco era sempre un pericolo, perché non si poteva mai sapere cosa potesse succedere. A me é capitato per esempio di incontrarne una che mi ha detto subito Scheiße! Quindi io per lei ero una merda. Non dico cos’era lei per me.”
Enrica Zarfati: “Na vorta so’ venuta a esse scoperta che stavo rubando du’ bucce de

patate fraciche, de notte. M’ha preso, ‘na marescialla dei tedeschi e m’ha dato talmente de quelle botte che m’ha fatto uscire il sangue dal naso e dalla bocca”.

Giuditta Di Veroli: “La capa del campo si chiamava Maria, (3) C’aveva un bastone in mano, chi le passava vicino…era una cosa tremenda quella donna”
Nota (3) : Maria Mandl, nota come Maria Mandel, fu nominata comandante del campo femminile di Auschwitz II – Birkenau (Lagerführerin) nel 42, al posto della precedente Johanna Langefeld che era invisa al comandante Hoess. Di crudeltà senza pari, imprevedibile e spietata, ebbe parte attiva nella messa a morte per gassazione di mezzo milione di persone, in grandissima maggioranza donne e bambini.


A questo punto, occorre ripresentare questa fotografia, con alcune altre dell’album di ricordi di Hoecker.
In quest’altra foto, successiva alla prima, il gruppo corre in avanti verso il fotografo, ridendo. Sappiamo che il motivo é il fatto che l’allegra brigata é stata sorpresa da un improvviso acquazzone, ed evidentemente dietro al fotografo si trova un luogo sotto cui ripararsi. Adesso sappiamo che mentre venivano scattate queste foto, poco distante una serie di camere a gas assassinavano, senza sosta, la popolazione ebraica d’Ungheria e di altre nazioni, tra cui quella Italiana. Una serie di crematori e di roghi all’aperto, poiché i crematori industriali non bastavano, bruciavano corpi, giorno e notte, ventiquattr’ore su ventiquattro. Sotto quello stesso acquazzone, gruppi di uomini e donne ridotti a larve umane si trascinavano a lavorare nelle aree intorno a Birkenau, pieni di piaghe infettate nei piedi, sotto i colpi dei Kapò, delle SS, e delle Aufseherinnen di turno, spesso ormai portando avanti lavori inutili, appositamente ideati per stremarli ed umiliarli.
Scrive l’avvocato triestino Bruno Piazza, che fu prigioniero a Birkenau in quel periodo:
“Ne manca uno,” disse, e pronunciò un numero. “Se entro cinque minuti non mi viene consegnato, l’intero Block, medici, assistenti, capo bolcco, scrivani e politici compresi, vanno tutti al crematorio.”
Fu un’affannosa ricerca dello scomparso. Gli assistenti inferociti si scagliarono ansimando su di noi, ci strapparono dai letti per controllare i numeri […]. A un tratto un ragazzo di forse diciotto anni uscì dalla fila, tese il braccio sinistro e mostrò il numero al capo blocco. Era quello che cercavano. “Ci volevi far ammazzare tutti, vigliacco” urlò un assistente afferrandolo brutalmente. “Non é un vigliacco,” intervenne un altro ragazzo, fratello del ricercato, che era uno dei pochi risparmiati nella selezione. “Vedrete come saprà morire con coraggio”.
E abbracciò il fratello per l’ultima volta, singhiozzando disperatamente. Questo del 31 ottobre 1944 fu l’ultimo massacro che si verificò ad Auschwitz-Birkenau in seguito a selezione. Da allora non ce ne furono più. Soltanto la dissenteria, il tifo, l’esaurimento organico continuarono a far strage.
(Bruno Piazza – Perché gli altri dimenticano. Prima Ed. Giugno 1956)
Riusciamo a immaginare uno di quegli allegri ragazzi entrare nel block di Bruno Piazza e con sguardo feroce urlare “Se non mi trovate il mancante, vi spedisco tutti al crematorio!”
La logica del cervello umano, giunti a questo punto, percepisce il bisogno di ossigeno, di nutrimento, per poter sopravvivere.
6) Se questi sono umani
Sappiamo che la vecchia scusa del militare tedesco (“obbedivo agli ordini”) aveva un limite preciso. L’ordine di sterminio non si poteva evitare, le crudeltà, le umiliazioni e le torture invece sì. Se l’obiettivo della Soluzione Finale (Endlosung) era rendere l’Eurasia Judenrein (senza ebrei), perché accanirsi? E com’era possibile che si potesse avere una vita normale, a fianco di quella di sterminatore e aguzzino? Infine, perché é così fondamentale cercare di comprendere, al di là della condanna, il comportamento delle persone in fotografia, e di tutti gli altri loro compagni e camerati?

Se é certamente vero che lo sterminio degli ebrei d’Europa é differente da altri genocidi, é anche vero che l’essere umano, nel suo
comportamento, é sempre il medesimo, dovunque sia nato e vissuto, e nonostante i riaggiustamenti storici e culturali locali. Studi di antropologia ed etologia umana hanno dimostrato una sorprendente (o forse no) somiglianza nei comportamenti (e non solo negli istinti di base), tra civiltà lontanissime tra di loro. Ma la Shoah si materializzò in uno dei due poli di civiltà più avanzati della terra (l’Europa), e quindi ebbe una costruzione, una messa in pratica e un destino differente.
Non si può guardare questi giovani godere quel momento (come altri ne ebbero sicuramente), di felicità collettiva senza il bisogno, la necessità impellente di capire come fosse possibile che 1) fossero finiti a fare quel lavoro in quel luogo 2) fossero in grado di accettare tale compito, compierlo fino alla fine, e festeggiare durante le licenze. Groening, durante l’intervista con Rees non arriva a usare il termine “piacevole” per quanto riguarda il periodo passato ad Auschwitz, ma poco ci manca. “Il campo principale”, spiega l’ex SS, “era come un piccolo paese. Aveva i suoi pettegolezzi, un negozio di verdura dove andare ad acquistare ciò che ti serviva per un brodo, un’osteria e un teatro con un programma di rappresentazioni”. Scrive lo storico Saul Friedlander:
“Per i circa 7000 membri delle SS che in diversi periodi furono assegnati al campo e rimasero in servizio prima sotto Hoess, fino al novembre del 43, e poi sotto Arthur Liebehenschel e Richard Baer, la vita era tutt’altro che sgradevole. Avevano a disposizione tutte le consuete attrattive, alloggi discreti, buon cibo (come abbiamo visto nel diario di Kremer*), assistenza medica, lunghi soggiorni per consorti o compagne, e regolari licenze in patria o in speciali luoghi di vacanza. Nel campo stesso, per alleviare lo stress causato dal lavoro, le SS potevano godersi musica suonata appositamente per loro dall’orchestra di prigioniere, che si esibì dall’aprile del 43 all’ottobre del 44. Inoltre, all’esterno del campo, la vita culturale comprendeva una vasta gamma di spettacoli, almeno una volta ogni due settimane, con una spiccata preferenza per le commedie […]. Non c’era penuria nemmeno di classici: nel febbraio del 1943 il teatro di stato di Dresda, presentò “Goethe Ieri e Oggi”. (Saul Friedlaner – Gli Anni Dello Sterminio)
*Il dottor Johann Paul Kremer era professore di medicina all’università di Münster e ufficiale delle SS. Si occupava di controllare che dopo le gassazioni non rimanessero segni di vita. Scrisse nel suo diario di come venissero distribuite razioni speciali di buon cibo ai prigionieri membri del Sonderkommando, coloro incaricati di aiutare a svestire i destinati alla camera a gas, raccogliere i corpi dopo la gassazione e portarli al crematorio, di solito al piano di sopra, o nelle fosse all’aperto dove dovevano poi bruciare i corpi. Elencava ogni cibo puntigliosamente.
Ciò che é tra il folle, il mostruoso e il ridicolo, sta nel fatto che Kremer seguiva personalmente le ricerche sui problemi medici dell’inedia. Portava, racconta Friedlander, i prigionieri scheletriti sul suo tavolo anatomico, faceva loro domande sulla loro personale esperienza di perdita di peso, poi li uccideva e sezionava i loro organi per poterli studiare.
“Salvo il fatto che vi sono i porci a cui interessa solo sfogare i propri istinti” continua Groening, “la speciale situazione di Auschwitz portò a formare amicizie che – e lo posso dire ancor oggi – ricordo con gioia”.
7) Un tentativo di spiegazione
Un concetto che riesce logicamente arduo da comprendere per chiunque, é che raramente chi commette il male in forma assoluta é una persona speciale, ma é in realtà banalmente comune, e l’unico attributo che lo possa rendere speciale é appunto il male che ha compiuto. Occorre dunque disfarsi, spiega James Waller, ordinario di Psicologia Sociale all’università di Spokane, Washington State, dall’idea che solo persone stra- ordinariamente malvage possano commettere atti di stra-ordinaria malvagità. Siamo noi, chi scrive e il lettore, i potenziali esecutori di atti di genocidio.
Se é difficile entrare nella mente di ciascun caso, ciascun esecutore, più semplice é costruire un modello che possa rendere conto delle circostanze che potenzialmente possono portare ad atti di uccisioni di massa. Cercherò di esaminare lo schema qui sopra, punto per punto, con l’aiuto delle spiegazioni di Waller stesso.
8) Fattore Fondamentale: L’evoluzione della natura umana.
Il neuropsicologo Steven Pinker usa il termine inglese “ultimate”, traducibile con definitivo, o fondamentale. La comunità umana si é sviluppata, nel corso dei secoli, ed é cresciuta esponenzialmente grazie all’acquisizione di una maggior capacità a cooperare per il bene reciproco, costruendosi leggi per promuovere uguaglianza e nel tentativo di governare secondo modelli di giustizia lungi dall’essere perfetti, ma sempre più elevati, ed ha accresciuto le sue capacità di esplorare e comprendere la natura e soddisfare i suoi bisogni essenziali con la scienza e la tecnica. Non solo, ma l’essere umano ha incominciato a comprendere la sua strada evolutiva, la strada che lo ha portato ad essere ciò che é oggi.
Ma é proprio questa acquisita conoscenza che ci riporta alla parte ben meno piacevole dell’evoluzione umana.
Quello che é l’essere umano oggi, le società più avanzate, sono la punta dell’icebereg della nostra evoluzione. Il novantanove per cento della storia umana riguarda gli spostamenti di sparuti gruppi nomadici di cacciatori/raccoglitori. In questo esteso periodo di tempo, quei gruppi umani dovevano agire di continuo per sopravvivere, e far sopravvivere i membri del gruppo, spostandosi di continuo per trovare nuove risorse, e combattere nuovi pericoli, con il rischio perenne di estinzione. Meno di diecimila generazioni ci separano da quei gruppi primordiali, che rappresentano la quasi globalità della storia umana. Quelle diecimila generazioni, in termini di tempo evoluzionistico, spiega Waller, sono meno di un battito di ciglia. Se la nostra natura odierna si é formata ai tempi dei gruppi di cacciatori/raccoglitori primordiali (il 99% della nostra storia), in quella che gli antropologi chiamano Ambiente di Adattamento Evolutivo, vuol dire che per far sì che si possano avere cambiamenti genetici stabili, rispetto a quel tempo che pur ci appare lontanissimo, dovrà passare ancora un tempo di lunghezza inconcepibile prima che si crei una nuova forma di adattamento rispetto a quella acquisita (secondo le leggi della selezione della specie), dai quei nostri lontanissimi progenitori.
In altre parole, per usare la definizione degli psicologi evoluzionisti Cosmides e Tooby, “nel nostro moderno cranio alloggia una mente da età della pietra”. E quindi, proseguono gli evoluzionisti, “in molti casi, il nostro cervello se la cava meglio a risolvere problemi del tipo che i nostri antenati dovevano risolvere in mezzo alle savane africane, più che risolvere le più comuni attività con cui potremmo avere a che fare nell’aula di un college in una città moderna.”
Se per certi versi il mondo moderno ha delle rassomiglianze con quell’ambiente preistorico, per molti altri aspetti é diametralmente diverso. Bruciando le tappe, ci siamo costruiti un ambiente ben al di là delle capacità di adattamento della nostra mente.
Scrive lo storico William Polk: “Gli umani si portano dietro, dal passato più remoto, istinti o propensioni per azioni e fobìe che non sono adatte al mondo moderno”
Hannah Arendt, nel suo saggio Le Origini del Totalitarismo, ha in qualche modo captato questo concetto:
“In verità, l’esperienza dei campi di concentramento dimostra che gli uomini possono essere trasformati in esemplari dell’animale umano, e che la “natura” é “umana” soltanto nella misura in cui si schiude all’uomo la possibilità di diventare qualcosa di estremamente innaturale, cioé un uomo”.
A questo pensiero vi fa eco l’angosciosa riflessione di Primo Levi in “Se Questo é Un Uomo”:
“I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità é sepolta o essi stessi l’hanno sepolta, sotto l’offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e stolide, i Kapos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge [prigionieri] indifferenziati e schiavi, tutti i gradini dell’insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono paradossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna”.
La selezione naturale darwiniana tuttavia, non modellla solo attraverso cambiamenti adattativi dei singoli, ma anche cambiamenti adattativi (culturali) di gruppo. L’antropologo Ernst Mayr in merito scrisse: “C’é una grande quantità di evidenze riguardo al fatto che i gruppi culturali umani, presi come unità, possono servire come bersaglio della selezione. E una selezione piuttosto dura, tra questi gruppi culturali, ha agito per tutto il periodo degli ominidi.“
Il singolo individuo, percependo che le sue possibilità di sopravvivenza erano grandemente aumentate all’interno del gruppo, al gruppo si é più o meno gradualmente adattato. La selezione naturale sugli umani che si adattarono all’ambiente in tempi preistorici, fece uso del suo “scalpello” non solo sui tratti personali del singolo, ma sui tratti del singolo che apparivano utili all’interno gruppo.
Tra i tratti utili nell’adattamento al gruppo, nota Waller, abbiamo una serie di segno positivo: cooperazione, dedizione, amicizia, altruismo preferenziale, altruismo di reciprocità, compassione, comunicazione, senso di equanimità, talora senso del sacrificio personale.
Ma l’adattamento non porta solo tratti positivi. Quei progenitori furono “segnati” da altri tratti: competizione per la dominanza tra gruppi, per la definizione di confini, e infine tratti legati alla paura dell’esclusione dal gruppo, poiché essa portava con sé il rischio di non poter sopravvivere.
La sopravvivenza del gruppo poteva significare la completa distruzione di un altro gruppo. I tratti più cupi dell’umanità non sono spariti e troppo poco tempo é passato perché potessero evolversi in cambiamenti adatti alle società moderne. Di conseguenza il male, quello che consideriamo male assoluto, non é solo patrimonio di individui eccezionalmente malvagi. É parte dell’intera umanità. Nel ambito di questo male assoluto, viene inclusa la capacità di commettere omicidi di massa, e genocidio.
Insieme al fattore fondamentale dell’evoluzione umana accennato qui sopra, vi sono però dei fattori di influenza più immediata.
9) La Costruzione Culturale dell’Idea (o visione) del mondo (Weltanschauung)
Riguarda intenzioni, regole, significati, norme, valori, princìpi, attività attraverso cui ogni individuo vive la propria vita, afferma Waller. È l’orientamento culturale che uno possiede per discernere ciò che é buono, ciò che é morale, e per la definizione di sé.
Viene anche definito modello culturale. Sono le lenti attraverso cui interpretiamo il nostro mondo sociale e che ci permettono di giudicare quali siano le risposte appropriate a tale mondo.
Modelli culturali legati a valori collettivisti sono caratterizzati dall’autoritarismo e dalla dominanza sociale.
I valori improntati al collettivismo (obbedienza, conformità, tradizione, ordine e sicurezza) sono quelli che in tali modelli culturali formano ciascun individuo. Per costoro, una propria identità, centrata sul gruppo di appartenenza, che tale gruppo sia legato alla razza, all’etnicità, alla tribù, al klan, alla famiglia, alla religione o alla nazionalità, diventa la caratteristica centrale e di definizione della propira identità fino ad oscurare il proprio io. (Waller)
Certamente ogni società necessita di un certo livello di autorità per mantenere l’ordine, ma quando il livello di forza autoritaria, specie se strettamente gerarchizzata in forma piramidale, diviene troppo forte, é molto facile che più individui si convincano ad additare come causa di problemi sociali (di solito indicata dai leader o dal leader), questa o quella minoranza. E questa tendenza presenta anche la capacità di soddisfare uno degli istinti di base dell’essere umano, come di altri animali: la dominanza sociale. E la dominanza sociale (su altri) presenta anche la possibilità di un accesso preferenziale alle risorse, risorse opulente in tempi di “vacche grasse” o di base per la sopravvivenza in tempi duri.
10) La Costruzione Psicologica dell’ “Altro”
Waller riconosce tre meccanismi principali per arrivare ad una definizione dell’altro che possa portare alla sua eliminazione, al genocidio, alla pulizia etnica.
1) La forma di pensiero “Noi/Loro. Non é la via diretta verso il crimine di massa, ma é
definisce nettamente l’appartenenza ad un gruppo con particolari caratteristiche,
incompatibili con l’altro gruppo.
2) Lo svincolamento dalla moralità: Waller spiega che non si tratta solo di dimostrare
indifferenza o “rendere invisibili” gli altri. É un processo progressivo in cui i singoli, poi il gruppo, spostano “gli altri” al di fuori della normale applicazione dei propri valori morali, dei valori di parità di diritti e doveri.
3) Disumanizzazione: qui entra in gioco la forza delle parole o delle immagini che
producono concetti, stereotipi su cui si costruiscono categorie di persone sempre meno umane, per razza, religione, idee politiche. Come i tedeschi, anche i gapponesi, nella Seconda Guerra Mondiale provarono esperimenti di falsa medicina su cavie umane. Quelle persone, venivano definiti “maruta”, che vuol dire ceppi di legno. In Rwanda gli Hutu presero a chiamare i Tutsi “Inyenzi”, ovvero “scarafaggi”. Gli oppositori politici della giunta greca dei colonnelli, torturati nelle prigioni, erano definiti “vermi”, mai per nome. Dopo un certo periodo, ad Auschwitz, i prigionieri diventarono i numeri che avevano tatuato sul braccio, numeri che dovevano imparare in tedesco, per rispondere ai continui appelli, e dal primo giorno, se non volevano rischiare di essere massacrati di botte.

E in Germania, come in altri paesi europei e non europei, gli stereotipi negativi contro gli ebrei esistevano da sempre, ma a partire dal 1933 divenne gradualmente un vero e proprio bombardamento negativo, una propaganda che potrebbe assomigliare alla divulgazione di fake news sui social network, se queste fossero ufficialmente imposte dal governo in carica. Lo psicologo Erik Erikson introdusse il termine di Pseudospeciazione per indicare il processo di esclusione e deumanizzazione:
Inizialmente, con il termine pseudospeciazione si intese riferirsi al fatto che l’umanità, anche se appartenente a una sola specie, si autodivise, attraverso la storia – territorialmente, culturalmente, politicamente – in vari gruppi che permettono ai loro membri di considerarsi, in momenti decisivi, più o meno consciamente ed esplicitamente, l’unica vera specie umana, mentre tutti gli altri (specialmente certi altri) come men che umani… Qualcuna di queste pseudospecie crearono per loro stesse la mitologia di un posto e un momento speciale nel centro dell’universo, nel luogo e nel momento in cui una divintà particolarmente provvida rese possibile che venisse creata o superiore a tutte le altre, o per lo meno come uniche tra tutte… Ciò che rende questo processo un tremendo pericolo potenziale di dimensione universale, é il fatto che in tempi di pericolo e di sollevazioni, l’idea di essere la specie più importante, tende ad essere rinforzata da una paura e un odio fanatici nei confronti di altre pseudospecie. La sensazione che quegli altri debbano essere annientati o “tenuti al loro posto” attraverso operazioni di guerra e conquista, o con la forza di severe misure, può diventare un’ossessione periodica, e reciproca, dell’uomo.
(Citato da Kai T. Erikson “On Pseudospeciation and Social Speciation)
Il processo di deumanizzazione, nel caso specifico dello sterminio degli ebrei d’Europa, ha raggiunto un picco probabilmente mai raggiunto prima anche nei più remoti bassifondi della storia dell’umanità, e in questo, tra l’altro, si differenzia da altri genocidi. Scrive ancora la Arendt in Origini del Totalitarismo:
“Mediante la creazione di condizioni in cui la coscienza non é più sufficiente e far bene diventa assolutamente impossibile, la complicità delideratamente organizzata di tutti nei delitti del regime é estesa alle vittime e così resa veramente totale. Le SS coinvolgevano nei loro delitti gli internati – criminali, politici ed ebrei – affidandogli la responsabilità di una notevole parte dell’amministrazione; li ponevano così di fronte all’insolubile dilemma di mandare alla morte i propri amici o di contribuire all’uccisione di altri uomini, per combinazione sconosciuti, costringendoli in ogni caso a comportarsi come assassini. In tal modo l’odio era deviato dai veri colpevoli (tanto che i kapos erano più odiati delle SS), ma, quel che più conta, si annullava la distinzione tra persecutore e perseguitato, fra carnefice e vittima.
Una volta uccisa la personalità morale, l’unica cosa che ancora impedisca agli uomini di di diventare cadaveri viventi, é la differenziazione dell’individuo, la sua peculiare identità.
[…] I metodi usati per venire a capo dell’unicità della persona erano numerosi, e non li elencheremo tutti. Essi cominciavano con le mostruose condizioni di trasporto nei Lager, durante il quale centinaia di esseri umani erano stipati in un carro bestiame […], appiccicati l’uno all’altro, e sballottati da una parte all’altra per giorni e giorni; continuavano, dopo l’arrivo al campo, col ben organizzato shock delle prime ore, con la rapatura, con la grottesca divisa, e finivano nelle inimmaginabili torture calcolate in maniera tale da non uccidere il corpo… (Hannah Arendt – Le Origini del Totalitarismo)
La Arendt qui accenna ad uno dei tre passi che il totalitarismo intraprende per l’annientamento delle persone: dapprima si ha l’eliminazione della personalità giuridica, mettendo alcune categorie al di fuori della tutela della legge, cercando di aggirare, ma non di infrangere deliberatamente la legge corrente. Nello stesso tempo, per quelle categorie si istituiscono dei sistemi di rimozione e punizione (per esempio i Konzentration Lager), che sono totalmente disgiunti dal normale sistema carcerario e punitivo. Il passo successivo é quello che riguarda la memoria delle vittime. Le persone vengono rimosse e il loro ricordo deve essere rimosso, cadere nell’oblìo. Spariscono in un buco nero, lontano, chissà dove, e il resto del mondo va avanti. Nessun registro, nessun memoriale, nessun nome, nessun ricordo. E questo passo introduce il terzo e ultimo, l’annullamento dell’unicità, della differenziazione tra un individuo e l’altro. Non rimangono nomi, ma solo numeri e, per la maggioranza, nemmeno quelli. Il primo comandante di Auschwitz-Birkenau, Hoess, sinceramente confessò di non avere una pallida idea del numero delle persone ammazzate nella sua macchina di sterminio,

Le SS esigevano che il ghetto fosse governato da un consiglio ebraico (Judenrate), che doveva tassare la comunità, nella speranza di ottenere clemenza e sussistenza, dovevano scegliere chi sacrificare – chi mandare a lavorare per i tedeschi – nella speranza di salvare il grosso della comunità, che già moriva tra le casacce del ghetto per mancanza di cibo, farmaci, talora acqua potabile, con conseguenti epidemie. Pensavano di mandarli a lavorare per la Germania, che sarebbe stata dura ma forse i giovani sarebbero sopravvissuti. Poi i ghetti vennero svuotati nella violenza e nella brutalità, in occidente e nel sud Europa incominciarono le retate. Stipati in vagoni bestiame, persone di qualsiasi età o genere, da neonati a novantenni, senza cibo e senza acqua, nel freddo o nel caldo inferenale, viaggiavano per giorni fino ad imboccare la linea isolata dei campi di sterminio. Arrivavano che erano una massa stremata che aveva viaggiato, affamata e disidratata, sommersa dai loro cadaveri e da quelli che erano deceduti durante il viaggio. Un grumo umano che aveva incominciato a perdere identità, individualità. Quelli che a Birkenau venivano convogliati nella fila di destra da un medico delle SS (nel periodo che stiamo esaminando era quasi sempre il dottor Josef Mengele), venivano fatti marciare nell’area chiamata Sauna. Veniva ordinato loro di denudarsi, tra i commentacci delle SS e di altri individui, vestiti da prigionieri ma altrettanto letali delle SS, venivano rasati dalla testa ai piedi, veniva detto loro di far questo e quello in lingue che la maggior parte di loro non conosceva (tedesco o polacco), quando esitavano perché non capivano venivano immediatamente picchiati e frustati. Infine (solo ad Auschwitz) veniva loro dolorosamente tatuato un numero sull’avanbraccio. Infine venivano distribuiti vestitacci lerci, deteriorati, puzzolenti, raramente della misura adatta a ciascun singolo, scarpe o zoccoli rotti e spesso spaiati, misure troppo stette o troppo larghe (4).

Erano, naturalmente, le uniformi indossate un’infinità di volte e recuperate dai cadaveri dei prigionieri nelle camere a gas, da quelli che morivano d’improvviso nei campi di lavoro intorno al lager, quelli che crepavano sotto le bastonate e le frustate, quelli che morivano in quanto cavie umane di di esperimenti pseudo scientifici, quelli divorati dai cani, quelli che si spegnevano nella notte per consunzione e per malattie sui tavolacci delle baracche dormitorio. Scaraventati in baracche sovraffollate, infestate da insetti e topi, scoprivano, incontrando chi già vi abitava, come si sarebbero trasformati, tempo una settimana, ovvero non-uomini e non-donne, e avranno imparato come gli altri prigionieri siano a loro volta ostili, inaffidabili, pronti a rubare le loro scarpacce se appena un poco migliori delle loro, o la loro razione di brodaglia, alla minima distrazione. Saranno anche maltrattati da altri ebrei, specie gli italiani:
“Tutti sanno che i centosettantaquattromila [numero d’ordine tatuato – n.d.a.] sono gli ebrei italiani: i ben noti ebrei italiani, arrivati due mesi fa, tutti avvocati, tutti dottori, erano più di cento e già non ce ne sono che quaranta, quelli che non sanno lavorare e si lasciano rubare il pane e prendono schiaffi dal mattino alla sera; i tedeschi li chiamano “zwei linke Hände” (due mani sinistre), e perfino gli ebrei polacchi li disprezzano perché non sanno parlare yiddish.”
(Primo Levi – Se Questo é Un Uomo)
“Anche sui posti di lavoro, a parte il fatto che gli italiani ebbero sempre i posti peggiori e furono alloggiati nelle baracche più fetide e sovraffollate (poiché nei Kommandos e nelle baracche migliori non li volevano), i nostri connazionali erano oggetto di persecuzioni accanite, sia da parte dei Prominentem e delle guardie SS, che degli stessi compagni di lavoro”.
(G. Melodia – Un documento militare americano sul Lager di Dachau, in Il Movimento di Liberazione in Italia).
In questo modo, osserva la Arendt, le persone venviano annientate, prima della morte.
Nota (4) “La morte incomincia dalle scarpe: esse si sono rivelate, per la maggior parte di noi, veri arnesi di tortura, che dopo poche ore di marcia davano luogo a piaghe dolorose che fatalmente si infettavano.” P. Levi – Se Questo é Un Uomo.
11) Colpevolizzare la vittima
Ma il capitolo sulla disumanizzazione non sarebbe completo se non si sottolineasse anche la tendenza filosofico-religiosa a sostenere che il mondo degli umani sia ordinato secondo una legge di equità e giustizia, ciò che le correnti new age di pensiero definiscono, con un uso improprio del termine, “karma”. Ciò che esce da questa illusione cognitiva é la nefasta convinzione che se uno é vittima, in qualche modo si é meritato tale condizione, e ne può quindi essere incolpato. Se si accetta come vera tale concezione, allora si può arrivare a scendere nei piani inferiori di tale distorsione: la vittima deve aver fatto qualcosa per meritarsi la punizione (la condizione di vittima), altrimenti non le accadrebbe ciò che le accade, e quindi é giusto che sia così, perché la gente normale (?) non fa quella fine se non se l’é cercata in un modo o nell’altro.
Non solo, ma il vittimizzare una persona, fino al suo annientamento come tale, la porta ad avere comportamenti di sopravvivenza che sembrerebbero corroborare tale ragionamento. Il carnefice, ridotto a umano-bestia, trasforma la vittima in vittima-bestia, e in tale circolo vizioso vi trova una scusa pseudo-razionale al suo comportamento, come racconta il comandante Rudolf Hoess nella sua autobiografia:
“Anche il contegno del sonderkommando era per lo meno singolare. Tutti quanti sapevano benissimo che, alla fine di quelle operazioni, anche a loro sarebbe toccata la medesima sorte di tutti i correligionari, al cui sterminio avevano contribuito con tanta sollecitudine. Eppure portavano in questo lavoro uno zelo che non mancò mai di meravigliarmi. Non soltanto non accennavano minimamente a quanto stava per accadere, non soltanto prestavano gentilmente il loro aiuto durante le operazioni di svestizione, ma all’occorrenza impiegavano anche la forza contro chi si ribellava. In questi casi, portavano via i tipi irrequieti, e li tenevano fermi perché i soldati potessero sparargli, ma lo facevano in modo che le vittime non si accorgessero neppure della presenza dei sottoufficiali pronti con i fucili, e che questi potessero, inavvertiti, puntare l’arma alla nuca. Allo stesso modo si comportavano con i malati e gli invalidi che non potevano essere portati alle camere a gas, e facevano ogni cosa con tanta naturalezza che si sarebbe detto appartenessero anch’essi agli sterminatori. […]

Che cosa dava agli ebrei del Sonderkommando la forza di assolvere giorno e notte un compito così orrendo? Speravano forse in un evento particolare che li salvasse dalla morte all’ultimo momento? O gli orrori a cui avevano assistito avevano ucciso la loro sensibilità, oppure, ancora, erano troppo deboli per farla finita da sé e sottrarsi così a quell’ “esistenza”? Li ho osservati molto a lungo e attentamente, ma non sono in grado di dare spiegazioni sul loro comportamento”.
A queste considerazioni – specie le considerazioni sulla perdita di sensibilità – da parte di colui che aveva organizzato la mattanza e avuto l’idea perversa di costringere le vittime a gestire la parte più orrenda dello sterrminio, risponde Shlomo Venezia, membro del sonderkommando 3 del Crematorio III di Birkenau, ebreo greco di origini italiane:
“ ‘Cosa vuol dire Sonderkommando?’ ‘Comando speciale’ (5) ‘Speciale. Perchè?’ ‘Perché lavoriamo nel crematorio…dove la gente viene bruciata.’ Per me un lavoro valeva l’altro, mi ero già abituato alla vita nel campo. Non mi spiegò, però, che i cadaveri da bruciare erano quelli di persone che entravano vive nel Crematorio…”
“Non credo che si possa chiamare ‘collaborazione’ il fatto di aver voluto alleggerire, anche se solo di poco, la sofferenza di queste persone che stavano per morire. Aiutavo le persone anziane a svestirsi, cercavo di evitare loro le botte”.
“Tutti quelli che all’arrivo del treno non riuscivano a camminare – i malati, i disabili, gli anziani – venivano caricati sui camion e portati nel cortile dell Crematorio. […] Portare le persone a morire e sostenerle mentre venivano giustiziate era per noi indubbiamente il compito più duro. […] Salendo i tre scalini si entrava nella sala dei forni. Mentre noi la costeggiavamo dalla parte dove facevano uscire le ceneri, il tedesco si metteva alla fine, leggermente nascosto dietro all’ultimo forno. Gli passavamo davanti […] e le vittime quasi non lo vedevano. Appena lo sorpassavamo, lui sparava a bruciaplelo dietro la nuca. […] Dovevamo essere tanto abili da abbassargli la testa perché altrimenti il sangue sprizzava come una fontana. Se disgraziatamente un goccio di sangue sfiorava la SS, se la prendeva con noi e non esitava a punirci, come é successo a mio fratello, o anche ad ucciderci seduta stante”. […] Gli uomini del Sonderkommando erano costretti a fare cose di questo genere, non posso negarlo. In questo caso riconosco di sentirmi un po’ complice, anche se non li uccidevo io, ma non avevamo scelta non c’era altra possibilità in quell’inferno. Se mi fossi rifiutato il tedesco mi sarebbe saltato addosso e mi avrebbe ucciso all’istante. […] Un giorno tre giovani ebrei religiosi ungheresi vennero scelti per essere integrati nel Sonderkommando. Avevano ancora il caftano, il cappello, i riccioli. Si rifiutarono di piegarsi agli ordini dei tedeschi. Non li vidi entrare, ma so che li fecero spogliare e salire i tre gradini, come i prigionieri che venivano giustiziati con un colpo di pistola. Morirono così e suppongo che altri furono immediatamente scelti per rimpiazzarli. La scelta non mancava”. (Shlomo Venezia – Sonderkommando Auschwitz)
Sentirsi “un po’ complice”, trasformati kafkianamente, come sottolinea Jean Amery in Intellettuale ad Auschwitz, in immondi insetti da un sistema perverso in cui si voleva una commistione tra vittima e carnefice nel tentativo di rendere invisiblile la differenza tra i due ruoli. E così gli stessi inventori di tale sistema non capivano, rimanevano perplessi, come accadde al comandante Hoess. Gli ebrei vennero (e vengono) accusati di tutto: dominavano Wall Street e Franklin D. Roosevelt era una povera marionetta che erano in grado di muovere a piacimento. Nello stesso tempo, il bolscevismo era opera di menti ebree che nell’Unione Sovietica di Stalin continuavano a tramare. Per i cristiani erano gli assassini che avevano ucciso Dio. E comunque, visto che sono sempre stati perseguitati dovunque, ci sarà pure un motivo.
Nota (5) Il Sonderkommando era un gruppo speciale di prigionieri ebrei presente nei campi di sterminio. Ad Auschwitz avevano il compito di aiutare i condannati alla gassazione – che scendevano nell’interrato dei crematori, dove erano alloggiate le camere a gas – a svestirsi completamente, e a instradarli alle false docce, sotto il controllo delle SS. La camera a gas veniva riempita di persone in maniera così stipata che spesso i bambini o i più deboli soffocavano prima che fosse gettato il gas. Un tedesco chiudeva le porte stagne della camera a gas. Nel frattempo all’esterno arrivava un camioncino con il simbolo della Croce Rossa (!), ne scendeva una SS con il barattolo di Zyclon B, un pesticida in forma di granuli che a contatto con l’aria sprigionava vapori di cianuro. Da un’apretura sul soffitto della camera a gas, veniva svuotato il barattolo, che attraverso una colonna a buchi raggiungeva il pavimento della camera tra i condannati. Il gas uccideva tutti entro dieci-quindici minuti per blocco degli scambi di ossigeno nelle cellule.
La camera veniva ventilata e i membri del SK dovevano districare i corpi gli uni dagli altri e trascinarli fuori dalla camera, camminando su uno strato di sangue, vomito, urina ed escrementi rilasciati dai condannati per effetto dell’intossicazione da acido cianidrico. Ai corpi estratti dalla camera dovevano tagliare i capelli (alle donne) ed estrarre i denti d’oro, fedi nunziali, monili preziosi. Dovevano poi pulire il pavimento e ridipingere i muri con uno strato di calce. I corpi trascinati fuori venivano sistemati su un montacarichi che li portava al piano superiore dove si trovavano i forni, ammassati nel corridoio dei forni e poi sistemati su un piano davanti ai buchi delle fornaci e spinti dentro. I
membri del SK dovevano poi pulire regolarmente i forni dalle ceneri, passare al setaccio le ceneri, fracassare con pestelli le rimanenze ossee, e gettare polveri nelle acque dei fiumi che passavano in prossimità del campo, Vistola e Sola. Dovevano anche gettare i forni nelle fosse e bruciarli, nei periodi in cui i quattro crematori non erano sufficienti. I membri del SK, considerati pericolosi testimoni, venivano a loro volta uccisi con il gas ogni tre-sei mesi, tranne nell’ultimo periodo, dove le gassazioni e cremazioni avevano raggiunto il picco più alto. I prigionieri scelti per il SK non sapevano nulla del loro lavoro. Vivevano totalmente isolati dagli altri prigionieri. Mangiavano di più e vivevano in baracche più decenti. Chi si rifiutava veniva immediatamente ucciso e rimpiazzato. Chi rallentava il lavoro o si bloccava, veniva frustato o bastonato, più spesso ucciso. Spesso gli ebrei del SK incontravano parenti, amici, a cui erano costretti a mentire e accompagnarli alla morte.
(I disegni sono la testimonianza di David Oréle, membro del Sonderkommando del Crematorio III. Polacco naturalizzato francese, noto pittore e cartellonista, sopravisse allo sterminio)
Una volta caduti nella rete, furono incolpati di ciò che non facevano. Da una parte potente nemico che

trama contro le società del mondo, dall’altra, massa di pecore che si faceva portare al macello. Ridotti a meno che bestie – i cani lupo delle SS venivano nutriti con cibo che i prigionieri osservavano di lontano con invidia, contorcendosi nella fame – (6) costretti a vivere nella sporcizia, nel fango, in baracche dove dormivano contro vicini scheletriti che si scioglievano in diarrea sui tavolacci, venivano additati dai loro persecutori per il loro sudiciume, per la loro incapacità di mantenere un minimo di dignità.
Nota (6) ”La Zentralbauleitung ad Auschwitz progettò un canile a Birkenau per 250 cani da guardia e, sempre per i cani, una cucina speciale” (Raul Hilberg – La Distruzione degli Ebrei d’Europa).
Per il fatto che quei fantasmi fatti di pelle e stracci, schiacciati da una fame perenne, spesso si rubavano tra di loro quel tozzo di lurido pane che era la loro razione giornaliera, o quel mestolo di brodaglia che lo accompagnava, o magari cercavano di allungare le mani sulle scarpacce di qualcuno per evitare che le piaghe nei loro piedi non si approfondissero fino a produrre infezioni così gravi da condannarli all’eliminazione sicura, diveniva agli occhi delle guardie SS la controprova del carattere geneticamente maligno, accaparratore, traditore dell’ebreo. James Waller analizza questo schema del mondo con una sua giustizia di fondo come un sistema di sopravvivenza emotiva (“se non faccio nulla di male non mi verrà fatto del male”), che ci permette di avere un’illusione di controllo sulla fragilità della nostra esistenza, una fragilità che ci viene ricordata ogni volta che qualcun altro é costretto a soffrire, a provare dolore, male fisico, disgrazie, esperienze laceranti, morte. Se succede qualcosa a noi si grida disperati “cosa ho fatto di male!” Se succede qualcosa ad altri si commenta: “Qualcosa devono aver pur fatto”. Oppure “avrebbero dovuto fare qualcosa”. Perché gli ebrei non si sono ribellati subito? Perché non si sono suicidati? Perché?
“Oh Dio del cielo, perché hai creato i tedeschi per distruggere l’umanità – scrive un giovane nelle sue note di diario, come riportato dallo storico Saul Friedländer nella sua opera in due volumi sulla Shoah, vincitrice del Premio Pulitzer – Mio Dio, perché hai permesso loro di dire che sei neutrale? Perché non vuoi punire, con tutta la tua ira, quelli che ci stanno distruggendo? Siamo noi i peccatori e loro i giusti? É questa la verità? Certo sei abbastanza intelligente per capire che non é così, che noi non siamo i peccatori e loro non sono il messia”. (Saul Friedlander – Gli Anni Dello Sterminio)
Ritenendo che nessuno sarebbe sopravvissuto per testimoniare – come fece Shlomo Venezia – alcuni membri del sonderkommando seppellirono, tra le macerie dei crematori che furono costretti a distruggere quando i nazisti abbandonarono il campo, dei pezzi di diario, come Zlaman Gradowski, ed é ancora Friedländer a presentarcela:
“Gli altri due li tirano direttamente [n.d.a. I cadaveri giunti dalla camera a gas] fino ai forni, dove vengono disposti a coppie su ogni apertura. I bambini assassinati vengono ammassati fino a formare una grossa catasta, vengono aggiunti, lanciati sopra le coppie di adulti. Ogni corpo viene sistemato su una “lastra di sepoltura” in ferro, poi la porta dell’inferno viene aperta e la lastra spinta dentro […]. I capelli sono i primi a prendere fuoco.
La pelle, immersa nelle fiamme, si incendia in pochi secondi. Ora le braccia e le gambe incominciano a sollevarsi: i vasi sanguigni che si dilatano provocano questo movimento degli arti. L’intero corpo sta ora bruciando vigorosamente; la pelle é stata consumata, e del grasso cola e sibila nelle fiamme […]. La pancia sparisce. Budella e interiora vengono rapidamente consumate, e nel giro di pochi minuti non ne rimane traccia. La testa é quello che impiega più
tempo a bruciare; due fiammelle azzurre guizzano dalle orbite oculari: stanno bruciando con i cervello […]. L’intero processo dura venti minuti – e un essere umano, un mondo, é stato ridotto in cenere”.
I sonderkommando si ribellarono a ottobre del ‘44. Speravano in aiuti esterni, dai membri della resistenza polacca, ma questi continuavano a postporre il momento della rivolta. Grazie ad alcune donne che lavoravano in una fabbrica di munizioni in un sotto-campo di Auschwitz, polvere nera fu fornita ai rivoltosi in piccole quantità, giorno dopo giorno. I sonderkommando decisero di mettersi in azione senza aiuti esterni e fecero saltare il crematorio IV.
Tre SS furono uccise e dodici ferite. La coordinazione con gli altri crematori nonfunzionò – un Kapò di nome Karol fece la spia ai tedeschi, fu scoperto dai sonderkommando, preso e scaraventato vivo in uno dei forni. Molti insorti furono uccisi subito, altri tentarono la fuga ma furono cacciati e uccisi quasi tutti il giorno stesso dell’insurrezione. Alcuni furono impiccati nei giorni seguenti e tutti i gli internati furono costretti ad osservare le forche con i cadaveri, compreso Primo Levi che ne fece menzione in “Se Questo é un uomo”. Nel solo giorno della rivolta, 451 internati vennero uccisi. Le tre prigioniere che avevano procurato la polvere da sparo furon scoperte e impiccate dopo diverse settimane.
“Ai piedi della forca, le SS ci guardano passare con occhi indifferenti: la loro opera é compiuta, e ben compiuta. I russi possono ormai venire: non vi sono più uomini forti fra noi, l’ultimo pende ora sopra i nostri capi, e per gli altri, pochi capestri sono bastati. Possono venire i russi: non troveranno che noi domati, noi spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende. Distruggere l’uomo é difficile, quasi quanto crearlo: non é stato agevole non é stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi.
Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice.”
(Primo Levi – Se Questo é un uomo)
Le vittime, se diventano colpevoli in quanto tali, se si presume che in qualche modo si siano meritata la loro fine, confermano le scusanti dei persecutori, sollevandoli dal fardello della colpa. I motivi li chiarisce il capo, il Führer, i suoi diretti collaboratori, il ministro della propaganda Goebbles, il capo delle SS Himmler, ne amplificano la voce e spiegano l’importanza vitale delle decisioni e delle azioni da compiere:
“Circa due ore dopo l’inizio del discorso, che durò tre ore e dieci minuti [n.d.a. Discorso di Poznan ai Gruppenführer SS riuniti, ottobre 1943], Himmler decise di gettare sul tavolo una questione pesante, di cui le SS non potevano parlare in pubblico: “l’evacuazione degli ebrei, lo sterminio del popolo ebreo”. Questa volta era necessario toccarla, disse Himmler. Una cosa era inserire la frase “esclusione degli ebrei” o “sterminio degli ebrei” nel programma nazista, un’altra cosa realizzarlo. In linea di principio, i tedeschi approvavano la persecuzione, notò Himmler con un certo sarcasmo, ma poi ciascuno cercava di salvare i buoni ebrei che conosceva. Queste persone non capivano cosa volesse dire veder giacere cento o cinquecento o mille corpi a terra. Himmler si gloriò che le SS avessero tenuto fede al programma, a parte alcune eccezioni dovute a umana debolezza, onorando se stesse. Era “una pagina di gloria non scritta e da non scriversi mai nella nostra storia” […] Se gli ebrei non fossero stati sistemati, continuò Himmler, la germania sarebbe ricaduta nella situazione del 1916 o del 1917, quando essi avevano infettato il corpo politico. “Noi avevamo il diritto morale, avevamo il dovere di tutelare il nostro popolo, di uccidere questa razza che voleva ucciderci”.
Era il futuro che Himmler aveva abbozzato nel 1938, il giorno precedente la Kristallnacht [n.d.a. Notte dei Cristalli, nome dato al massiccio pogrom organizzato dai nazisti contro istituzioni e proprietà ebraiche in Germania, Austria e Cecoslovacchia nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938] (Richard Breitman – Himmler, il burocrate dello sterminio. 1991)

In altre parole, Himmler spiegò ai generali delle sue SS che il loro compito era duro, ma qualcuno lo doveva pur portare a compimento. I loro compatrioti non si rendevano conto di quale sforzo loro, membri e capi delle SS, erano stati chiamati a compiere. E nemmeno avrebbero mai dovuto saperlo, quindi che non si aspettassero particolari riconoscimenti, se non la gloria di aver salvato la Germania e il suo popolo da chi, secondo lui e il Führer, aveva cospirato per la distruzione del popolo tedesco e della razza ariana. Per Himmler le SS divenivano volontarie vittime dell’orrore che dovevano procurare, e quindi eroi solitari che, usi obbedir tacendo, assolvevano un compito salvifico per l’occidente ariano.
12) La Costruzione sociale della crudeltà
Himmler aveva reiterato quello che fin dall’inizio riteneva fosse giusto implementare tra le SS: un’atmosfera, un clima etico e un contesto sociale in cui il male diventasse una necessità, e che sarebbero stati premiati – almeno tra di loro – per averlo portato a termine fino all’ultimo.
Il sovvertimento etico, specie in clima di guerra totale, diventa la norma. Ma questo richiede una certa preparazione, che poi la condizione di guerra accelera e cementa. Professionisti e gruppi sociali di tutti i generi vengono mantenuti a stretto contatto, affinché tale socializzazione porti a una identificazione di gruppo, attraverso fattori che accomunano e alla fine legano nel profondo i membri del gruppo. E il miglior legame é la condivisione del male, specie se é il male assoluto, come il genocidio.
“Quando uno mette in atto un comportamento appropriato per un determinato ruolo, in così facendo spesso acquisisce l’attitudine, la dottrina, i valori e la morale coerente con tale ruolo e i suoi comportamenti. Vista sotto questa luce, la spropositata brutalità dei terroristi non sta ad indicare automaticamente una inerente, pre- esistente brutalità: non tutti coloro che giocano un ruolo brutale devono necessariamente possedere tratti caratteriali sadici. Piuttosto, la brutalità può essere la conseguenza, e non solamente la causa, del trovarsi in una gerarchia sociale debitamente certificata e legittimizzata a commettere il male”. (Waller, James. The Ordinariness of Extraordinary Evil: the Making of Perpetrators of Genocide and Mass Killing, in Ordinary People sa Mass Murderers: Perpetrators in Comparative Perspective. Palgrave- Macmillan, 2008. )
13) Mele marce? No. É marcio il cesto che le contiene.
Lo psicologo Philip Zimbardo ideò il famoso esperimento della Prigione di Stanford.
Studenti dell’Università di Stanford, vennero selezionati rigorosamente per le loro buone capacità intellettive, cultura e soprattutto per l’assenza di disturbi della personalità e o di sbilanciamenti emozionali di rilievo. A caso furono divisi in due gruppi, guardie e prigionieri. Dopo meno di una settimana, l’esperimento fu bloccato, su suggerimento di una collega di Zimbardo. Zimbardo oltre che essere il docente alla direzione dell’esperimento, si era appuntato “direttore della prigione”. Eppure, nonostante la sua cultura ed esperienza in psicologia sociale, non si era accorto di quanto l’esperimento stesse uscendo dai binari. Giorno dopo giorno, i ragazzi in veste di guardia si erano trasformati in veri e propri aguzzini, alcuni un po’ di più, altri un po’ di meno, mentre i prigionieri, dopo prime proteste, si erano assoggettati a quella di vittima, alcuni raggiungendo livelli di crollo nervoso e resa emozionale di fronte a una situazione che ben sapevano essere una finzione. Non erano in un lager nazista, e nemmeno in una vera prigione americana. Erano negli scantinati dell’Università di Stanford, nella parte centrale di quella che oggi viene chiamata Silicon Valley, alcune decine di miglia a sud di San Francisco.
Non solo, ma lo stesso Zimbardo dovette essere “risvegliato” alla realtà dei fatti da una collega, esterna all’esperimento.
Zimbardo fu poi richiesto di analizzare alcuni degli aguzzini della prigione Abu Ghraib, in Iraq. Dopo aver analizzato i soggetti e aver scavato nel loro passato, anche con testimoni (famigliari, amici, colleghi), scrisse un rapporto in cui escludeva forme di malattia mentale, disturbi della personalità, aberrazioni cognitive. Non si trattava di “alcune mele marce”, ma del cesto che conteneva le mele (l’ambiente), che trasformava le mele sane in mele marce.
L’esperimento di Stanford durò sei giorni. Le brutalità ad Abu Ghraib durarono alcuni mesi. L’educazione del popolo tedesco verso una brutalità sempre più crescente era iniziato dieci anni prima, basandosi su antichi pregiudizi razziali ben radicati.
Zimbardo analizzò le guardie americane incolpate delle brutali torture alla prigione iraniana di Abu Grahib. In nessuno di coloro che analizzò, passando al setaccio la loro vita passata, interrogando genitori, amici, spose o mariti, trovò appigli per poterli tacciare di personalità antisociale, di tendenze sadiche o brutali. Scoprì invece che assistettero più e più volte alle cosiddette “enhanced interrogation”, un eufemismo per indicare un’interrogazione sotto tortura, da parte di membri dei servizi segreti americani. Scoprì che costoro erano alloggiati nello stesso perimetro di quell’imponente carcere, spesso particolarmente di notte, senza nessuna supervisione di ufficiali. Scoprì che certi comportamenti non erano sconosciuti agli ufficiali dei comandi, ma venivano passati sotto silenzio. E non vi é da stupirsi che il silenzio venisse percepito come tacito consenso. E questo é il significato del famoso “Effetto Lucifero”: messi di fronte a nuove situazioni mai incontrate prima, e circondati da un ambiente in cui azioni normalmente prescritte vengono permesse, se non addirittura richieste, ognuno di noi potrebbe trovarsi a commettere azioni che non avrebbe mai pensato, concepito, talora neppure immaginato.
Ideologie e contesto socio-politico alterato, tuttavia, cessa di essere il “cesto” principale in cui le mele marciscono nel momento in cui scoppia la guerra.
Lo psicologo Harald Welzer e lo storico Sönke Neitzel, analizzarono le intercettazioni dei prigionieri tedeschi, catturati dagli alleati alla fine della guerra, registrazioni di conversazioni tra militari, senza che questi fossero al corrente di essere registrati. Ne nacque un testo estremamente importante: Soldaten: Combattere Uccidere Morire. I due autori sottolineano più volte l’importanza del condizionamento della guerra, difficile da comprendersi in periodo di pace, per quanto ci si possa sforzare di superare la critica analitica dettata dalla condizione di “normalità” che una vita civile e ordinata, senza guerra, suggerisce. Nel contesto della guerra, anche l’ideologia molto spesso passa in secondo piano:
“In guerra, i protestanti si comportano come i cattolici, i nazisti come gli antinazisti, i prussiani come gli austriaci, gli accademici come i non accademici. […] Lo studio della biografia collettiva serve ad illuminare le strutture motivazionali, ma tende ad attribuire eccessiva importanza alla funzione formativa dell’ideologia, a discapito della prassi. É la pratica della violenza specifica ad un gruppo, molto più di qualunque motivazione e classificazione di ordine cognitivo, a motivare e rendere comprensibile le azioni dei soldati. […] …é il fattore decisivo, più di qualsiasi Weltanschauung [concezione del mondo, n.d.a.], disposizione o ideologia. Queste sono rilevanti solo per quello ciò che i soldati ritengono di potersi aspettare, per ciò che stimano giusto, irritante o indegno, ma non per ciò che fanno. [grassetto aggiunto dallo scrivente]. Potrà sembrare eccessivamente riduttivo, dato quello che hanno combinato quei soldati, ma in guerra si crea tutta una serie di eventi e di interazioni in cui le persone fanno cose che non farebbero mai in altre condizioni. Per esempio, i soldati ammazzano ebrei senza essere antisemiti, e “difendono” fanaticamente il proprio paese senza essere nazisti. É ora di smettere di sopravvalutare il fattore
ideologico: l’ideologia può fornire occasioni per una guerra, ma non può essere presa come spiegazione del perché i soldati uccidono o commettono crimini di guerra.”
Personalmente io avrei scritto “come unica spiegazione” o principale spiegazione, perché é cosa certa che l’educazione ideologica, specie quella proveniente dalla famiglia di origine, può in molti soggetti preparare la pavimentazione al il cammino verso azioni orribili, nel momento in cui la situazione lo permettesse, come uno stato di guerra. Certamente, gli studenti scelti da Zimbardo a Stanford non erano indottrinati alla prevaricazione, specie di altri studenti che non conoscevano. Eppure ci misero un giorno a trasformarsi in aguzzini da una parte, e da vittime dall’altra.
“Due mesi dopo lo studio, questa fu la reazione del prigioniero N.416, il nostro aspirante eroe che fu piazzato in isolamento per diverse ore: ‘Incominciai a percepire che stavo perdendo la mia identità, che la persona che chiamavo Clay, la persona che mi mise in questo luogo, la persona che si offrì volontario per andare in questa prigione – perché per me era una prigione; e ancora per me lo é. Non lo considero come un esperimento o una simulazione perché si trattava di una prigione diretta da uno psicologo invece che diretta dallo stato. Ho incominciato a sentire che la mia identità, la persona che ero e che aveva deciso di entrare in prigione era distante da me – era remota fino al punto di non essere quella persona, ma di essere il N.416. Ero veramente diventato il mio numero.”
(Philip Zimbardo – The Lucifer Effect. 2007)
Tralasciando qualsiasi paragone sulla differente gravità dei trattamenti, non é possibile non notare che quello che provò lo studente qui sopra menzionato ha lo stesso suono di disperazione che traspare dai sopravvissuti ai lager, ed é certo che le condizioni della simulata prigione di Stanford non possano essere paragonabili ad Auschwitz. Ma il senso sta nel fatto che i ragazzi-prigionieri erano cambiati perché lo erano i carcerieri. E i carcerieri definiscono le condizioni del carcere, il trattamento dei carcerati, la scelta dei “prominenti” tra i carcerati stessi come la scelta di chi, come, quando punire.
Paradossalmente, le SS non amavano azioni personali sadiche nei campi. Qualcuno che passò il (loro) limite, come due soldati che ad Auschwitz buttarono trenta deportate da una finestra senza un particolare motivo, furono allontanate e punite. Azioni personali non venivano incoraggiate, ma più per la truppa che per gli ufficiali o i graduati superiori. E se Hoess (come Franz Stagl, il comandante dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka) probabilmente non hanno mai personalmente picchiato e forse nemmeno ucciso persone direttamente, almeno nelle loro qualità di lager kommandant, erano indubbiamente al corrente degli orrori compiuti dagli ufficiali di grado inferiore, per non parlare delle follie criminali dei medici che sperimentavano a Birkenau, anche se le sperimentazioni sui deportati erano incoraggiate, caldeggiate e controllate da Himmler in persona.
Hoess era un fanatico o un arrivista con zero scrupoli? Personalmente propendo per la seconda opzione, anche se nei colloqui che tenne con lo psicologo G.M. Gilbert prima e durante il Processo di Norimberga, Hoess confessò:
“Per me, come vecchio fanatico nazionalsocialista, prendevo tutto come un fatto – esattamente come un cattolico crede nei dogmi della Chiesa. Era come una verità senza necessità di domande; non avevo dubbi. Ero totalmente convinto che gli ebrei fossero agli antipodi rispetto al popolo tedesco, e che prima o poi ci sarebbe dovuto essere uno scontro decisivo tra il nazionalsocialismo e l’ebraismo mondiale. (7)
(G.M. Gilbert. Nuremberg Diary – 1947 Prima edizione)

Hoess qui si confessa come membro di una setta, indottrinato fino alle estreme conseguenze.
E una setta é un gruppo ristretto, a cui la definizione di Waller – con valori collettivistici, identificazione con il gruppo e attacco emotivo al gruppo – può prendere una forma tanto imponente da oscurare il proprio “io”, o sostituirsi ad esso e diventare la più importante forma di auto-identificazione di una persona, tanto da far pensare, come nelle preistoriche tribù di cacciatori-raccoglitori, che altri gruppi possano essere una minaccia fondamentale per il gruppo, cioé se stessi. E la risposta a tale minaccia, può raggiungere una forma estrema, totale, devastantemente distruttiva.
Naturalmente non é possibile usare una simile spiegazione per giustificare il fatto di essere divenuto forse il più grande “mass murderer”, assassino di massa che la storia ricordi. Fu infatti giudicato colpevole di crimini contro l’umanità da un tribunale polacco e impiccato a due passi dal Crematorio I nello Stammlager (campo principale) di Auschwitz.
Nota (7) Non si può non intravvedere, nelle parole di Hoess, una interessante correlazione con altri fanatismi, come la credenza, radicata in certe frange estremiste cristiane americane, dello scontro finale tra forze cristiane e forze del male, i seguaci dell’Anticristo, sulla Collina di Megiddo ( in ebraico har significa montagna, e Mageddon é Megiddo, da cui “Armageddon”), o lo scontro finale anelato dai musulmani aderenti all’ISIS, tra il loro Califfato Globale e gli invasori crociati della cristianità.
Psicopatici avevano il permesso di coesistere a fianco di gente normale. Il responsabile dei crematori di Birkenau, Otto Möll, (8) era uno psicopatico. Il supervisore del crematorio in cui venne a trovarsi l’infelice Shlomo Venezia, da lui descritto come uno che provava piacere a uccidere la gente (Johannes Gorges),

era uno psicopatico. Ma Groening e Hennings non lo erano. Il dottor Josef Mengele era un perfetto psicopatico, come il dottor Carl Clauberg, che sperimentava con dolorosissime iniezioni sugli uteri delle deportate per trovare il perfetto sistema di sterilizzazione per le donne inferiori, non tanto le ebree, che erano tutte destinate allo sterminio, ma le slave, le “non aventi diritto alla riproduzione”.

Ma il direttore dei servizi medici del campo, Eduard Wirths, non lo era, anche se non si trattenne dal praticare personalmente sperimentazioni su cavie umane. Irma Grese, la bella bionda, una di quelle menzionate da Liliana Segre, che amava far denudare le deportate più avvenenti e farle frustare sui seni fino a causare gravi mutliazioni, era una sadica psicopatica, e così Maria Mandel. Ma Johanna Langefeld é possibile che non lo fosse. E con loro tanti altri. Maximilian Grabner, capo dell’ufficio politico (Gestapo, addetto alle interrogazioni) al campo principale era un pericoloso criminale, tanto più che permetteva al suo aiutante, il mostruoso Wilhelm Boger di torturare nei modi più orribili gli interrogati, addirittura ideando nuovi sistemi di tortura (la cosiddetta “Altalena di Boger”).


I torturati venivano poi giustiziati da un altro ufficiale, che amava sparare personalmente ai condannati, nonostante fosse disponibile il plotone d’esecuzione (Gerhard Palitzsch). Ma costui probabilmente non era uno psicopatico.
Nota (8) Shlomo Venezia racconta di quando fu rinvenuto un neonato ancora vivo, avvolto in un cuscino, sotto la piramide di corpi morti che si veniva a creare nella camera delle “finte docce” dopo la gassazione, probabilmente perché si era trovato in una “sacca” di aria non contaminata dall’acido cianidrico. Venne portato fuori, nella speranza che Möll lo risparmiasse. Ma questi, senza scomporsi, fece cadere a terra il cuscino con il neonato, gli pestò il collo con lo stivale, e lo gettò personalmente nelle fornaci.
E i nostri ragazzi delle foto, allegri e vivaci? Ora che abbiamo esaminato qualcosa della vita ad Auschwitz nel periodo in cui vi furono distaccati, possiamo immaginare che non fossero tutti come Gorges e la Mandel, ma più facilmente come Groeing, o come il giovane che mise in isolamento il “N.416” nella prigione di Stanford. Nessun famoso “persecutore” mi risulta che sia stato riconosciuto, in questo gruppo. Non per questo erano meno criminalmente colpevoli, anche se personalmente non percossero o uccisero nessuno. Anche se scelsero in modo immaturo di entrare nelle SS per il prestigio, per l’uniforme, per l’inerente potere posseduto anche come “mann” cioé soldato semplice. Ma Jakob W.
non poteva non essere stato testimone delle azioni delle SS in Yugoslavia, poiché lì già si trovava, e per
ammirazione dell’efficienza tedesca si presentò volontario all’ufficio reclutamento delle SS etniche (che vennero fornite da tutti i paesi d’Europa coinvolti nella guerra, Italia compresa). Forse dalle torrette non uccise nessuno, forse non bastonò a morte nessuno, e forse no, come per i ragazzi dello “spensierato” album di ricordi di Hoecker.
14) Identificazioni con il gruppo e fattori vincolanti con il gruppo.
Questo ultimo fattore fu certamente importante tra le 7000 SS presenti nei tre campi principali di Auschwitz (Auschwitz I Stammlager, Auschwitz II Birkenau Vernichtunglager- Sterminio, Auschwitz III Monowitz-Buna Werke, Arbeitlager, campo di laovoro industriale) più in vari campi saltelliti. Oskar Groening chiarì che chi, di fronte all’orrore, chiedeva di essere trasferito ad altro compito, persino al fronte russo nelle divisioni di Waffen-SS, non era visto bene. Al gruppo delle SS che mandava avanti Auschwitz era stato comminato un compito fondamentale per la Germania. Odioso, violento, ma doveva essere fatto. Nel ‘44 il colonnello Eichmann,

nel coordinare la massiccia deportazione ad Auschwitz dell’intera, vasta comunità ebraica ungherese, fece in modo che i treni per i deportati avessero addirittura la precedenza sui vettovagliamenti per le armate sul fronte russo. Il nemico interno, l’ebreo, era un nemico più importante – ed enormemente più facile – da distruggere, di quanto non fosse l’Armata Rossa. Su questo occorre notare, che se gli alleati erano certi, come lo siamo noi oggi, che a quel punto la Germania aveva perso la guerra (il 6 giugno gli Alleati erano sbarcati in Normandia, un terzo dell’Italia era sotto il controllo alleato, e l’Armata Rossa si era già ripresa l’intera russia ed era entrata in Polonia, dove Varsavia era insorta, e in Romania; in agosto gli Alleati eran anche sbarcati nel sud della Francia e raggiunto Firenze nella loro avanzata in Italia). Come se non fosse bastato, a luglio Hitler si salvò per per un pelo dall’attentato dei congiurati della Wermacht, la famosa Operazione Walkiria). Tuttavia per i soldati tedeschi, e in particolare per le SS, come si evince dalle registrazioni riportate da Harald Welzer e Sönke Neitzel, la guerra era ben lungi dall’essere perduta, e continuò a non esserlo fino all’assedio di Berlino e allo sfondamento degli Alleati del fronte del fiume Reno. Di conseguenza se, dal punto di vista della catastrofica condizione generale, qualcuno si domandasse perché i ragazzi delle foto fossero così allegri e festaioli, é perché non pensavano affatto che le ritirate e l’apertura di tutti questi fronti potessero portare a un rapido collasso del Reich. Non era una situazione da “orchestra del Titanic” che continuava a suonare nonostante l’imminente naufragio. In realtà, salvo i gradi più alti dell’esercito, nessuno aveva un’idea globale e concreta della situazione. Il che rappresenta la realtà della guerra.
Una cosa é certa, e cioé che nella cornice (il famoso cesto) della guerra scatenata dalla Germania Nazista, pochi soldati misero in forse le motivazioni di fondo, la necessità dello sterminio, in particolare degli ebrei.

Sui modi dello sterminio, invece, ci furono molte più proteste. Ma non certamente dalle SS, che si sentivano chiamati a un compito superiore, ma da cui dipendeva l’incolumità della heimat, della patria.
Ma anche le proteste, proteste furono spesso messe a tacere nell’ambito dello spirito di corpo, della fedeltà ai compagni e dall’evitamento dell’emarginazione. Anche la diffusione dei compiti nella grande catena dello sterminio aiutava ad alleggerire l’anima, e nello stesso tempo, faceva in modo che il lavoro dei camerati dipendesse dal lavoro di chi stava a monte. I fuochisti e i macchinisti delle locomotive che portavano i convogli di carri piombati ad Auschwitz non erano altro che impiegati delle ferrovie. Ma ogni treno portava migliaia di innocenti alla morte. L’SS sulla torretta non era quella che versava il Zyclon B dentro le camere a gas. Groening stava in ufficio a compilare i suoi libri da ragioniere, sul materiale confiscato a centinaia di migliaia di infelici morituri. Non faceva servizio d’ordine nei campi di lavoro dove le SS pestavano gli schiavi che morivano di disfacimento fisico davanti ai loro occhi. Il ragazzo nella foto, con la fisarmonica forse faceva solo la guardia a un magazzino, o controllava l’arrivo dei vettovagliamente. Ma tutti facevano il loro lavoro in modo che ebrei, prigionieri russi, zingari sparissero per sempre, e nel peggiore, nel più orrendo dei modi.
Christopher Browning, della Pacifica Lutheran University di Tacoma, stato di Washington, nel suo famoso saggio Uomini Comuni: Polizia Tedesca e “soluzione finale” in Polonia, prende in esame il comportamento non di giovani SS, come i nostri della foto, ma di uomini di mezz’età, per la maggior parte poliziotti o ausiliari richiamati come riservisti dalla polizia di Amburgo, presi e spediti in Polonia, come battaglione di Polizia d’Ordine 101. Costoro erano stati, in un tempo non remoto impiegati, operai, artigiani, commercianti. Non erano nazisti convinti alla Hoess, ne avevano particolari sentimenti antisemiti.

In un solo giorno fucilarono 1500 ebrei. Nella loro permanenza in Polonia uccisero altre 38000 persone, in maggioranza ebrei, parteciparono a rastrellamenti di polizia che condussero altri 45000 ebrei al macello nel campo di sterminio di Treblinka. In questo gruppo di riservisti vi era, come ad Auschwitz, tutta la gamma di colori caratteriali, dall’ultra-fanatico, a colui a cui il tutto appariva quello che era, ovvero una mostruosa, inumana catena di distruzione dell’umanità. Tutti i colori, compreso il grigio, cioé quella famosa Zona Grigia a cui Primo Levi dedicò un capitolo nel suo ultimo libro, I Sommersi e I Salvati.

Di questi colori erano colorati i nazisti, le SS, i deportati, i riservisti del battaglione di polizia, gli studenti guardia e gli studenti detenuti di Zimbardo a Stanford.
E allora riguardiamo la foto della nostra allegra brigata di ragazzi, non più in bianco e nero. Ma nel gruppo dei persecutori, il novantanove per cento fecero quello che fu loro chiesto di fare, per spirito di gruppo, per etica militare, per convinzione ideologica, per effetto della diffusione delle responsabilità, per mancanza di basi etiche sociali, per disturbi della personalità, psicopatologia, narcisismo patologico placabile solo attraverso il potere assoluto esercitato su altri esseri umani, per paura di finire sul fronte russo, o di essere emarginati e disprezzati dai compagni (come se volessero mantenersi innocenti e lasciare il lavoro sporco agli altri, come Browning scoprì essere accaduto ad alcuni del Battaglione 101).

Oppure soltanto per essere lì, in quel posto, in quelle circostanze, dentro il “cesto”. Durante un’intervista con la rivista Wired, Philip Zimbardo sottolineò il fatto che comunque tutti sono responsabili del loro comportamento:
“Chi ammazza deve essere ritenuto responsabile. Tuttavia, quello che intendo dire, é che se l’atto di uccidere può essere dimostrato come come il prodotto dell’influenza di una situazione di poderosa influenza all’interno di un sistema potente, allora é come se ci si trovi in una condizione di diminuita capacità e di perdita di libero arbitrio o di una completa capacità di ragionamento.
Certe situazioni possono essere abbastanza influenti da abbassare l’empatia, l’altruismo, la moralità, e rendere gente comune, anche persone di animo buono, suscettibili alla seduzione del commetter azioni molto cattive – ma solo in quella situazione. […]
La maggior parte di noi si nasconde dietro il pregiudizio egocentrico che genera l’illusione di esser speciali.
Questo autocompiacente scudo protettivo ci permette di credere che ciascuno di noi si trovi al di sopra della media davanti a qualsiasi tipo di test sulla propria integrità. Troppo spesso osserviamo le stelle, attraverso la spessa lente di una personale invulnerabilità, quando dovremmo anche guardare in basso alla china scivolosa che abbiamo sotto i piedi.”
(Wired – How good people turn evil. Interview with Philip Zimbardo. 2008)
Sono partito dal senso di angoscia, ossessiva e irrazionale che mi generò la vista delle foto di questi giovani, più forse ancora delle foto dei visi allegri di noti criminali come Hoess, Mengele, Baer e Kramer.

Ma lasciarsi prendere dall’irrazionale confusione dettata da questa discrepanza di messaggi, di distorsione cognitiva all’ombra di un male assoluto non può rimanere la reazione ultima.
Occorre continuare a studiare il comportamento umano per cercare di sviluppare, come sottolineano in molti, tra cui lo stesso Zimbardo, sistemi di prevenzione per evitare che si creino condizioni, situazioni destinate a permettere l’attuazione del male. Questo, e solo questo é il senso dello studio dei persecutori. E non comporta la la loro assoluzione.
Guido Valobra De Giovanni – 2018
Revisione a cura di Elena Modesta Rossi
Appendice 1
La Germania come “stato di polizia”.
Appendice 2
La catena dello sterminio
Dopo l’arrivo del treno, i deportati vengono fatti scendere dai vagoni piombati.
Gruppo di donne e bambini ebrei deportati appena scesi dal treno.
SS e prigionieri deportati radunano la massa dei nuovi arrivati e si formano le file di uomini e donne con bambini. Subito dopo si formeranno altre due file di selezione: quella dei destinati alla morte immediata per gassazione, e quella con coloro che verranno avviati alla morte lenta per fame, malattia, percosse e torture durante l’esecuzione di lavori quasi sempre inumani.
Folla di deportati in divisa a strisce e nuovi arrivi, probabilmente in procitno di essere costretti a camminare lungo la lagerstrasse, verso le camere a gas.
In marcia verso le camere a gas e i crematori.
Gruppo di deportati, tutti destinati alle camere a gas e ai forni, attende non lontano dai bunker con le false docce.
Un gruppo di deportati svuota i vagoni con tutto ciò che é stato abbandonato nell’ultimo convoglio di deportati, di cui il 90% é già stata assassinata nelle camere a gas. La catalogazinone del materiale così confiscato era di pertinenza dell’ufficio contabile in cui lavorava Oskar Groening.
Appendice 3
Piantina dei tre lager principali
Campo Principale – Auschwitz I (Stammlager). La scritta “Arbeit Macht Frei”, “Il Lavoro Rende Liberi”, pare fosse stata ideata dallo stesso comandante Hoess. Il bunker é il famigerato Blocco 11, luogo di interrogatori, processi sommari, detenzioni di rigore della Gestapo, dove ebrei, polacchi e russi vennero torturati spesso a morte da persone come Grabner e Boger, o messi in loculi di isolamento nel basamento in numero tale da non potersi sedere, fino allo sfinimento. Nel cortile tra il Blocco 10 e il Blocco 11, vi furono innumerevoli fucilazioni (Mur des Executions), tra cui diverse personalmente eseguite da Gerhard Palizsch.
La pianta del gigantesco campo di Birkenau, con i quattro crematori com camere a gas (dal Secondo al Quinto, mentre il Primo si trovava nel campo principale di Auschwitz I). Inizialmente vi erano due crematori più piccoli, decentrati verso il fondo, nascosti a tutti. I nuovi crematori erano comunque isolati alla vista del resto del campo da alti muri e filo spinato. In blu, l’area dell’infermeria, quella a cui Primo Levi dedicò, in Se Questo é Un Uomo, il capitolo intitolato “Ka-Be” (abbreviazione di Krankenbau, infermieria).
Ricostruzione del Crematorio II a Birkenau (In francese):
Azzurro: entrata
Verde: spogliatoio Marrone: Sala controllo SS, entrata alla camera a gas e montacarichi per i corpi.
Viola: camera a gas con le colonne e le aperture sul soffitto per l’introduzione del ZyklonB.
Tondi grigi: sportelli dei crematori – dietro: ciminiera e fornace. Rosso: alloggiamenti del Sonerkommando
Piantina di Auschwitz III “Buna” Monowitz, dove erano ubicate le installazioni industriali della I.G Farben. Intorno, una serie di sottocampi satellitari del complesso chiamato “Auschwitz”. Agli impianti di lavorazione della gomma (Buna) lavorò Primo Levi. I nazisti distrussero gli impianti prima dell’arrivo dell’Armata Rossa.
Appendice 4
La copertura delle parole sui rapporti scritti. Breve dizionario.
Sonderunterbringung: Sistemazione speciale (gassazione) Sonderbehandlung: Trattamento speciale (eliminazione)
Badealstanten für Sonderaktionen: bagni per azioni speciali (false docce) Sonderkeller: cantine speciali (camere a gas)
Durchgeschleusst: incanalare (operazione di sterminio) Kriegsgefangenenlager: campo dei prigionieri di guerra (veniva così definito Birkenau, invece di Vernichtungslager, ovvero campo di sterminio).
Niente. Non riesco.
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