La triste ondata di indignazione che si é abbattuta sul sopravvissuto di Dacca, l’uomo che un minuto prima dell’incursione degli assassini islamici si é assentato dal tavolo in cui stava cenando con sua moglie per recarsi in una terrazza a telefonare (per non disturbare, immagino) e che poi si é nascosto, osservando impotente il massacro, e il paragone con il giovane musulmano che invece non ha abbandonato il tavolo delle amiche occidentali, il musulmano prima “graziato” in quanto musulmano e poi massacrato a causa del suo gesto di “connivenza” con gli occidentali, mi pare che aggiunga solo angoscia all’angoscia.
Nessuno di noi può avere la benché minima idea di come si sarebbe comportato in un simile frangente, come in nessuna situazione, specie in quelle estreme, in cui non ci si é mai imbattuti, e che non si é mai nemmeno immaginato.
Questo bisogno di esorcizzare il male, di allontanarlo da noi dando la colpa di un certo comportamento alle vittime (perché vittima é anche il sopravvissuto, come tutti i sopravvissuti), l’ho incontrato in questi giorni, rivedendo un’altra situazione di orrore, ormai molto vecchia, ma non così antica da essere stata dimenticata: il massacro dell’attrice Sharon Tate e dei suoi tre ospiti (più un quarto innocente che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato), nell’agosto del 1969, in una villa sulle colline di Beverly Hills. Sharon Tate era anche incinta di otto mesi, portava in grembo il figlio di Roman Polanski (sì, il regista), suo marito. Furono massacrati senza pietà da tre ragazze e un giovane, per ordine di Charles Manson, il tristemente famoso capo/guru della famiglia/setta di pseudo-hippies. Furono massacrati senza pietà a colpi di pistola e di coltellacci. E senza nessun motivo. Nessuno degli assassini aveva mai avuto niente a che fare con nessuno di loro.
Immediatamente dopo, e prima dell’arrivo dei referti delle autopsie, i giornali ritennero che il massacro fosse stato il risultato del solito festino “orgia di sesso e droga” a cui i ricchi e famosi – specie nel mondo dello spettacolo – sembrano essere perennemente dediti. Altri addirittura fantasticarono che Polanski aveva attirato su di sé le forze sataniche del male per aver diretto film come “Rosemary’s Baby”.
Polanski, che stava lavorando su una sceneggiatura a Londra, tornò immediatamente a Los Angeles e fu costretto a rilasciare una conferenza stampa per spiegare che sua moglie non era una sacerdotessa di orge sataniche piena di droga, ma una giovane e dolce sposa che da quando aveva scoperto di essere incinta non aveva mai più bevuto o fumato, e non gli risultava che avesse mai assunto droghe. Faceva quasi fatica a respirare, durante quella tremenda conferenza stampa, per l’angoscia, l’orrore, la rabbia (aveva appena finito di visitare la sua casa, con la moquette della sala ancora marcia del sangue di sua moglie). Dopo diversi giorni arrivò il verdetto del coroner: non erano state trovate tracce di alcol o droghe nel corpo di Sharon Tate, e solo vaghe tracce di simil-anfetaminici nei corpi di due degli ospiti che dovevano essere state ingestite probabilmente il giorno precedente a quello della sera del massacro.
Ma non fu abbastanza. Per meritare una morte così atroce, e senza motivo, dovevano pure aver fatto qualcosa.
Confessione: anche io stavo per cadere in questa trappola. Nel momento in cui fu accertato che gli italiani lavoravano nell’industria dell’abbigliamento, immediatamente pensai che dovevano essere gente che andava in Bangladesh a sfruttare la manodopera bengalese in “sweat shops” dove la gente locale probabilmente lavorava in stato di semi-schiavitù per paghe ridicole. La mia mente emotiva ha subito cercato di generare un motivo di colpevolezza. La mente logica fatica a uscire dalla relazione causa-effetto, delitto e castigo. Una tendenza umana dura da smantellare. Una tendenza – quasi scaramantica – per allontanare da sé, fittiziamente, l’orrore: “per fare una fine così, devono aver fatto qualcosa”.
Ma incolpare le vittime é sempre aggiungere orrore a orrore.